31 agosto 2010

BACCANALE

ALCUNE OPERE DELL'ARTISTA ACRESE RINO SCAGLIONE.
CI VORREBBE UN NUOVO MUSEO?
A.S.
BACCO (LA NUOVA MONNALISA)



LO SGARBI DEL TERZO MILLENNIO


30 agosto 2010

GIRO DI BOA


Da quanto tempo ad Acri non si parla delle condizioni dei lavoratori acresi ed oggi anche di altra provenienza geografica? Forse non se n’è mai parlato, un argomento completamente scartato sia dalla politica, sia dalla cultura e sia, soprattutto, dai sindacati. Approfitto di questo giro di boa per riportare uno scritto di Giovanni Duardo, poeta e scrittore di Melicuccà ma residente ad Acri, purtroppo non più fisicamente tra noi dal 2005, il quale ha illustrato in maniera chiara e diretta alcuni aspetti delle condizioni del lavoro al sud e principalmente nella nostra città. Cose sotto gli occhi di tutti ma stranamente invisibili.

ANGELO SPOSATO


STATO DI DIRITTO STATO DI FATTO
di GIOVANNI DUARDO


Tratto da “E siamo ancora qui… (Poesie e altri scritti)” di Giovanni Duardo, Edizioni Officina Grafica, Villa San Giovanni (RC), 2006;
pubblicato anche sul periodico “Confronto” –Acri, n. 5, maggio 2001

La tornata elettorale per le politiche non è da molto che si è conclusa e ancora si sentono gli echi delle dichiarazioni programmatiche e delle promesse lanciate sui pulpiti dai candidati dei vari schieramenti. Il tempo ci dirà se gli impegni verranno mantenuti o si trattava solo di demagogia.
Ma un dato di fatto è possibile rilevare già da adesso ed è la pecca, la lacuna con cui sono incorsi i vari candidati, anche locali, nel presentarsi agli elettori. Il fatto, cioè, che mentre tutti hanno parlato del trito e ritrito problema della disoccupazione e dei rimedi per affrontarlo, nessuno ha fatto menzione di un altro gravoso fardello che pesa sugli italiani e specialmente su quelli del Meridione.
Si tratta della maloccupazione (termine liberamente ricavato per analogia in altri settori).
E’ un fenomeno latente, diffuso e quindi ormai istituzionalizzato. E’ la violazione sistematica di un articolo costituzionale e precisamente dell’art. 36 che sancisce il diritto del lavoratore “ad una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso tale da assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa”. E non c’è bisogno di uscire dai confini municipali per constatare questa realtà.
Ad Acri non c’è alcun lavoratore dipendente che percepisca una retribuzione regolare, una paga cioè qual è quella stabilita nelle contrattazioni collettive nazionali e sancita con legge.
Così, alla piaga della disoccupazione e del lavoro nero si aggiunge quella del lavoro sottopagato, cioè del lavoro retribuito con una paga da sussistenza.
La situazione si presenta così: lavoratori assunti regolarmente, con un regolare contratto, ma le cui norme non vengono mai applicate; lavoratori, cioè, che percepiscono uno stipendio reale di 600-800 mila lire, un milione al massimo, a fronte di un contratto che ne stabilisce ad es. un milione e mezzo; lavoratori che non sanno cosa sia “lo straordinario” (perché quello che svolgono non gli viene mai retribuito); lavoratori la cui tredicesima è costituita da un panettone o una bottiglia di spumante, e le cui ferie sono lasciate alla discrezionale mercè del datore di lavoro.
Non c’è bisogno di essere degli economisti e di scomodare Marx col suo concetto di plusvalore per capire che si tratta di sfruttamento bello e buono. Ma di tutto questo nessuno parla, come se si trattasse di uno stato di fatto ineluttabile, proprio della nostra economia.
I sindacati non fanno nulla, nulla fa l’ispettore del lavoro. Nessuna indagine, nessuna denuncia. Gli stessi lavoratori sono riluttanti ad effettuare qualsiasi protesta, qualsiasi vertenza sindacale per la paura di eventuali ritorsioni che porterebbero alla perdita del posto di lavoro. Anzi, opinione diffusa tra costoro è che… “500-800 mila lire sono meglio di niente… Che ci vuoi fare”. In pratica vale il detto tipicamente calabrese: -Vasciati juncu ch’a hjumara passa- Purtroppo, si crea in questo modo una sorta di circolo vizioso. Poiché l’apatica accettazione, la reticenza, la rassegnazione dei lavoratori di fronte allo stato di fatto crea e continua ad ingrossare quello che Marx chiamava “l’esercito industriale di riserva”, la massa di tutti coloro su cui gli imprenditori possono contare per perpetuare il loro sfruttamento. In parole povere il datore di lavoro dice: -Non ti sta bene la paga che ti do? Te ne puoi anche andare. Sai quanti ne trovo disposti a lavorare anche per meno?
L’argomento che porta a giustificazione del suo comportamento –e che purtroppo è diventata opinione accettata quasi da tutti- è che la vita, qui da noi, è meno cara (rispetto ad es. al Nord) e che quindi si può benissimo vivere anche con un basso salario.
Ma questo è un discorso puerile ed ipocrita ed è peraltro relativo. Perché, dire che la vita è meno cara, significa semplicemente che la merce che si acquista, la si paga di meno. Ma colui che la vende, la può vendere di meno perché, a sua volta, l’ha pagata di meno. Il punto non è questo. Il punto è che la tanto decantata solidarietà del popolo calabrese va farsi benedire perché qui, come altrove e forse più che altrove, il più furbo, il più capace o il più fortunato sfrutta il poveraccio spingendolo verso una concorrenziale lotta con i suoi pari per uno stipendio da fame. Il punto è che anni e anni di battaglie per i diritti dei lavoratori, di lotte sindacali, di occupazioni di terre e di fabbriche, di morti, anche, vanno a farsi benedire quando lo Stato di diritto non esiste e le conquiste rimangono solo sulla carta. Il punto, infine, è che non è giusto che ci si arricchisca sulle spalle degli altri, non è giusto che sia così, occorre alzare la testa, far valere i propri diritti, avere dignità. Solo così avrà senso andare a votare, solo così si potrà dare la possibilità ad ogni uomo, ad ogni cittadino di dire, parafrasando un motto storico: “l’Etat c’est moi”.

Le virtù teologali. Per grazia ricevuta.




Ritratto sputato l’una dell’altra, non sorelle di sangue, bensì gemelle per disgrazia o iattura e per virtù della sorte zitelle. Impigliate ad una percezione più o meno lampante, a metà tra l’irrazionale e la ragione evidente, a ritrovartele a strata a strata, sotto mentite spoglie, faccifrunta. C’è chi giura d’averle intraviste o incontrate, per certo e di sicuro, a ra chiazza ad Acri, in via Lucantonio Pirozzi a Bisignano ad un numero civico non ancora pervenuto oppure in fila alla posta i ri Luzzi, o ‘nculu u munnu si ti para. E nei giorni dispari nonché in quelli pari, per non farsi mai mancare niente, tu stesso a sorprenderti per la loro presenza in metafore, omelie, catechismi, romanzi, fantasticherie e vecchie favole in esubero di morali. Ad impantanarsi fino all’anca o a fuggir via a gambe levate dalle esistenze dei comuni mortali talché alcuni a credere di trovarsi davanti alle tre Marie, altri a tre Grazie non meglio identificate mentre, i più sfrontati, nell’indicarle a dito a proferire: «to’, guarda le Parche!» Inevitabile il commento fuori luogo: «...Parche? E cchi ssu si Parche? ...Va’! Va’, e va pija u vocabbolariu! ...E sì, ca mangi!» Una sparuta minoranza, scettici se più credere ai propri orecchi oppure ai propri occhi, a dissentire con veemenza: «...ma che barche e barche!» I più cafoni senza esitazione: «...ma guardale!! Son proprio barche in cerca di un approdo!» E, per non darla affatto vinta a quei bifolchi, la minoranza sparuta a replicare: «...ma che approdo ed approdo!? Se mai son barche in cerca d’un porto ovvero di un molo!» Al che quei soliti quattro, sempre lì a voler dire l’ultima, e ca ci tiegnunu a non passare per bifolchi, a chiosare: «...e picchì no le tre caravelle? ...La Nina, la Pinta e la Santa Maria!» E giù a sganasciarsi a crepapelle. Cosi i nenti, cose che capitano ppi ru munno, quisquilie per l’appunto!
Le tre, nell’intanto, sempre in cammino e mai a fermarsi, in cerca d’accoglienza purché sia. Al loro manifestarsi ogni pertugio a farsi portone, ogni disponibilità a slabbrarsi e delinearsi in mera e schietta accettazione. Ogni strada quella giusta, sebbene più faticosa del previsto. Ogni sosta un’occasione. Non perché bisognose di dimora, in quanto avvezze ad accasarsi dove capiti, in ogni dove.
«Trasite! ...Trasite!», ad invitarti la prima delle gemelle zitelle. Con una voce cavernosa di un’improbabile Tina Pica e la presenza non meno barricadera e popolana della bersagliera di Pane, Amore e Fantasia, ramazza in mano sulle tavole d’un proscenio itinerante. «Oggi è domenica. Trasite! É il giorno del Signore. Trasite! ...Non li vedete tutti ‘sti banchi vuoti?» I più a invocarla Fede per naturale inclinazione, altri a vederci qualcos’altro, dacché è a tutti risaputo come al suo cospetto si possa cadere persino nell’inganno, perché la malafede è cosa pur essa di questo mondo. No, non semplice malia ma sincera vocazione, per giovarsi della disposizione tutta umana a cercare, ricercare o, raggomitolati e aggrovigliati su stessi, perdersi dietro il bandolo della propria matassa. E “persino il parroco che non disprezza /fra un miserere e un'estrema unzione /il bene effimero della bellezza (F. De André)” non può esimersi dal suo accorato «...fede, abbiate fede!» Il che può certo ingenerare confusione, nel senso se sia meglio averla la fede, oppure letteralmente possederla per poi menarne vanto, fra quattro amici al bar. Strane e brutte bestie gli uomini!
Innegabile, comunque, che un povero cristo che la fede non ce l’abbia già di suo non se la può certo dare! Perché la fede non la trovi certo sotto un albero di Natale né nella grotta al freddo e al gelo! E per quanto tu possa sbattere ‘a capa i mura mura tu la fede non la trovi, di sicuro, sulu picchì paghi o picchì si biellu. Certo ad avercela meglio a tenersela ben stretta, come una buona moglie ca ti canusciari i maneri e ti tena ppi ra capizza. E guai a togliertela la fede dal dito, picchì è piccatu e che il tuo unn’è malu ca gh’è vizziu! E guai a cammirari, ca quanni ‘ncarni a ra carna, lassi a biccaccella e ti junni a na pullastra, lassi a cirivella e ti junni a ra vitella, lassi e piji, lassi e piji, e mangi e strazzi peju i nu puorcu!
La seconda gemella, anch’ella zitella, non è certo un fiore di campo ma più altera e sciccosa ed al contempo con un’aura misterica e sensuale, esotica se si vuole, felliniana. Carne e spirito impastate in un condensato equilibrato, idoneo ad incalzarti e solleticarti la voglia di adagiartici, quatto quatto, su quelle sue mollezze, trovando soddisfazione a tutte le tue ispirazioni, senza inibizioni e ripensamenti di rincalzo: «...mo’, ‘u vì, ...ghiu, chissà chi li facissa!?» Il kamasutra a non suggerirti niente né tutti i porn-tube della buonora. «C’mon!» a invitarti, pigliandoti quasi per mano. «C’mon!» a sussurrarti, lingua umida nell’orecchio. E “come on!” tu ad afferrare chiaro e netto, sciogliendoti lì per lì per tanta magnificenza del divino: «...quant’abbunnanzia for’affascinu!» Janca e russa cumu nu milu, seni floridi e gambe aperte cumu na rosa spampanata, a sbatterti n’baccia tutt’u Paravisu! E per quanto tu possa sognarla, desiderarla, e smaniare d’accovacciarti fra quelle sue cosce, schioccare la tua di lingua e spingerti fino in fondo... E per quanto tu possa o no immaginartela per scopartela, spassartela... Eccoti già lì cuore in gola, a tentar di sfilarti da ogni impiccio di decenza, caparbiamente a sbottonarti: «…maledetti bottoni della malora!» E nel tendere le mani, cerchi disperatamente di sfiorare e afferrare quell’apparizione ca cchjù si vasciari, cchjù... E ghilla, civittusa ed inarrivabile, a proporti: «vuoi che…?» Calzoni giù, allunghi le mani. «Vuoi che…?» La sensazione olfattiva del suo corpo rigoglioso lì proprio sotto il tuo naso. L’eccitazione a squassarti. «…Janca palumma mia, jancu lattu, luna strillambanti juorni e notti!» La sottana, tenuta su da sfiziosi fiocchetti, a lasciarle scoperto per intero il Paradiso. «Vuoi che…?» Il tuo corpo a torcersi dietro l’inarcarsi e tendersi della silhouette i ra janca palumma sempi cchjù vogliosa, ma ugualmente sfuggente. «Vuoi?» ... «Vuoi?» ... «Vuoi?» …Eh chi maronna! A cercare d’afferr… a... rla... A ritrasi, la gran... smorfiosa! Nemmeno ad un passo. A sfuggirti ancora. Il peso del tuo corpo a spingerti in avanti, mentre d’impeto ti scappa un latrato di godimento frammisto a rabbia pura. Senza né abbussari né trasiri, ...e cchi maronna!
Tutti a battezzarla Speranza picchì ognuno, a suo modo, dispone di voglia e volontà a iosa per continuare a restarsene attaccato unghie e denti a ssu fusu, ccu ra spiranza ca prima o roppi... ! Per quanto, a ben pensarci, nessuno si dia pensiero di come ella si possa o si debba chiamare, ognuno potendosela immaginare, a proprio piacimento, nei panni di Anita Ekberg, Belen Rodriguez, la sconosciuta della porta accanto o persino la propria fidanzata (? ... ! ...ma cchi fidanzata e fidanzata!), qualsivoglia bomba sexy o qualsiasi cosa che t’induca in tentazione e t’inchiodi alla vita. E tu, immemore ed illuso a consolarti perché dopotutto: «la Speranza è sempre l’ultima a morire!»
La terza gemella zitella pare sia la più ritrosa, per quanto in certi occasioni non disdegni di scoprirsi superando i limiti della pubblica decenza, e t’inviti senza fronzoli a placare gli altrui (bi)sogni. È capitato, in passato, e pare sia pure ben documentato, che spuntasse fuori da un centro benessere, con la sua bella scritta a carattere cubitali ANEMONE BEAUTY FARM, a braccetto di un bertolaso qualsiasi o dietro a un berlusconi qualsivoglia, ma ciò non aggiunge nulla che già non si sappia alla sua biografia. Non ha una faccia, ma mille o forse più. La chiamano Carità, ma a volte è così pelosa da darti nausea già al primo impatto. E con quale sensibilità si dispone a rispondere ad ogni chia(*)ata al misero costo di un esse emme esse! La carità... La carità... Fategliela ssa beniritta carità! Abbiate tutta la vostra compassione del cazzo per questa bella e giovane creatura... che solo ad offrirle una possibilità... la togliereste dalla strada, un cinque minuti, per poi risbattercela ancora ma con il cuore gonfio e sazio e la soddisfazione d’aver fatto fino in fondo tutto il vostro dovere, e non solo pagando s’intende! Una puttana. Nient’altro che una puttana... “cui molto è stato perdonato perché molto ha amato (Lc. 7, 36-50)”
Lungo le litoranee, lungo le circonvallazioni, nei club privè, nei paradisi sessuali, attraverso l’occhio vitreo della web cam sul tuo fottuto deskotop... la carità è lì che s’accasa, sempre lì con il suo obolo da reclamare, perché “Tu la cercherai, tu la invocherai più di una notte,/ ti alzerai disfatto rimandando tutto al ventisette./ Quando incasserai, dilapiderai mezza pensione,/ diecimila lire per sentirti dire: «micio bello e bamboccione.»(F. De Andrè)” Con una casualità non del tutto accidentale, “per le strade mercenarie del sesso / che procurano fantastiche illusioni, (Giuni Russo)”, può accaderti d’inciampare in un materasso reso irriconoscibile dal piscio, in un camper sbrindellato, in un rudere ammuffito a taglia ‘i strata, ebbene anche lì la carità si fa giaciglio, ci fa il nido e pure l’uovo, ed imperterrita fa proseliti. ...Ma, per carità di patria, non venite a dirmi che non c’è più religione e che: «...chissà dove arriveremo di questo passo?» Perché io non lo so affatto dove Cristo arriveremo! Per quanto non l’abbia mai saputo che si dovesse arrivare da qualche parte. Datemi retta: Fede, Speranza e Carità fanno visita a domicilio e non c’è bisogno che vi sforziate a cercarle in nessun modo!
E per quanti vizi, a seconda delle più singolari inclinazioni, si possano accampare o possano contarsi sulla faccia della terra, non c’é virtù che sia d’ostacolo sia pure (di) cardinale o sic et simpliciter teologale. E per quanto Ira, Avarizia, Superbia, Gola, Invidia, Lussuria, Accidia, facciano testo son ben poca cosa, vizietti per gente dappoco, vizi per gente senza mezzi, ambizioni o conoscenze altolocate, quasi innocenti nella loro sventurata mestizia. La confessione, un mea culpa e tre o quattro avemarie dopo i pasti e ti mondi l’anima e lisci la coscienza. Del resto: a ra tavula ‘i Cristu mangiani tutti! Una panacea a buon prezzo, perché non è come prendersi una pastiglia o la Magnesia Bisurata Aromatic San Pellegrino, ma di sicuro ha il suo bell’effetto e la sua efficacia garantita!
Cos’è la vita se non una miscela di bene e male, vizi e virtù, sinonimi e contrari? Certo c’è chi pende più di qua che di là, chi zoppica con una gamba e non con l’altra, chi gioca, fa il baro, e prende da e con entrambi le mani, ma ognuno a sua modo pecca. ...Cristiddio sa, se pecca! ...Ma è pur vero, come suol dirsi dalle nostre parti, ca vizziu ‘i natura fin’a siburtura! In fondo la natura è natura, e chi cci si pò fari? Del resto di vizi a catafascio, sicché può capitare d’imbatterti in chi s’applichi con virtù e giudizio nell’arte del vizio e chi neghi alle sue virtù l’ostinazione e la dipendenza assoluta proprie del vizio. Senza trascurare la propensione di chi non voglia compromettersi agli occhi di censori e baciapile e perseveri nel travisare i propri vizi come ordinari sfizi. E con quanta virtù indugiano i viziosi sul pedale, mentre ai più viziati non rimane che l’impressione di non conoscere altro che virtù.




Rosario Lombardo

27 agosto 2010

ENERGIA ALTERNATIVA


ANTONIO LE PERA

SOCIETA' APPESA PER LE "SFERE"



L’individualismo dilagante guida imperterrito le menti contorte di questa società perversa. Essa si masturba con l’accumulazione di risorse in mano a pochi individui riducendo la massa a misero spettatore di quattro ignobili potenti menefreghisti. Tutti gridano, inneggiano la caduta di Berlusconi come fonte di benessere collettivo. Non siamo in grado di creare una vera sinistra a causa di una casta inquadrata in un potere politico politicamente rilevante a farsi i cazzi loro. E’ caduto Berlusconi, e adesso? Che facciamo? Giochiamo alla morra o facciamo una partita a tressette? Non è Berlusconi il problema, se cade adesso si rialza ancora più forte di prima. E’ la società consumista, ottimista, egoista, individualista, borghese, che deve cadere. Se proprio vogliamo iniziare un processo di cambiamento, ricordiamoci che l’Italia l’hanno fatta in mille. La differenza tra ieri ed oggi è che ieri si è partiti dalla Sicilia, oggi bisognerebbe partire con una manovra a tenaglia dal sud al nord. Una “spianatella sociale”. Ridistribuzione di risorse. Eliminare le disparità iniziali. L’infrastruttura che regge i rapporti sociali deve essere uniforme per ogni appartenente a codesto Stato. Lavoro, istruzione, sanità. Le politiche attive del lavoro sono assenti, quelle passive fanno ridere. Il contratto nazionale sta andando a rotoli ed i sindacati si stanno adeguando al cambiamento, al decentramento, a levarsi dai “gabbasisi”. Si parla in Europa di flex-security, un misto tra precarietà e sicurezza. Quando ti vogliono lavori, quando non ti vogliono stai a casa e ti inginocchi sui quattro spiccioli che ti danno al posto dei ceci. Stai in punizione in quanto persona socialmente inutile. L’istruzione non è accessibile a tutti, i libri costano l’ira di dious e le tasse e le spese di mantenimento agli studi superano le possibilità reali. Hanno inventato l’ISEE, strumento oramai obsoleto. Soglie di reddito calcolate con un indice che sembra un medio non tengono conto di diversi fattori. E la ricerca.... che cosa è la ricerca? “N’tu culo alla ricerca!”* (*Antonio Albanese). Le politiche sanitarie sono scese nel ridicolo, le persone si sentono dire dai medici: “per la visita ci vogliono tre mesi, se la fai privata vieni oggi pomeriggio nella stessa struttura pubblica e nello stesso studio”. E si sentono prese per il culo. E si sentono prese per il culo. Le politiche per la casa? Qualche spicciolo alle giovani coppie per l’acquisto della carta igienica. Le politiche pensionistiche? Devi versare nel pilastro privato, sai c’è il problema del doppio pagamento nel ritorno al sistema a capitalizzazione. Devi pagare la pensione di tuo padre mentre lavori (ripartizione) e crearti la tua privata (capitalizzazione). Quando Bossi parla di fucili, non so se sa che a noi ragazzi del sud, da piccoli, dopo averci fatto bagnare il ditino nel vino per assaggiare il favoloso nettare, ci hanno fatto provare il contro colpo sulla spalla.

Pasquale De Marco

14 agosto 2010

BOB BROZMAN ON THE ROAD


di FRANCESCA BRANCA
TRATTO DA

In un paesino di poco più di mille abitanti a sud di Cosenza (Figline Vegliaturo si chiama), tra le varie sagre che popolano le tristi estati calabresi, ho scoperto un gioiellino di nome Bob Borozman.
Indossa occhialini tondi che ricordano John Lennon, è occidentale di Los Angeles, ma solo per le scarpe e i pantaloni, visto che dalla vita in su, con quelle colorate camicie hawaine, ben rappresenta il complesso di culture e civiltà che ha osservato da vicino nei suoi viaggi in 64 nazioni – fino ad oggi. Parla – spesso contemporaneamente – cinque lingue, una babele espressiva che lo rende ancora più amabile, qualora fosse possibile. Ma soprattutto Bob Brozman è, come lui stesso ama definirsi, “lo scienziato degli strumenti a corde”.
Suona strane chiatarre, dette resofoniche , sitar, chitarre slide e tutta un’altra serie ben fornita di strumenti ibridi, ivi compreso lo sgabello di legno su cui siede. Suona con le dita, con il palmo della mano, con il gomito, con il piede e fa gorgheggi sonori che nessun altro come lui saprebbe riprodurre. E’ sufficientemente brillante da menzionare con ironia i danni che l’umanità subisce per certi dispotismi legalizzati e sufficientemente autorinico da prendersi in giro per il suo aspetto fisico. Notevolmente spettacolare quando sostiene di essere democratico, anche se è il re di una nazione chiamata “brozmanland”. Certe volte fa giochi d’equilibrio con gli strumenti e non te lo aspetti, come non ti aspetti che un artista di un simile livello interagisca con il pubblico in maniera così semplice e diretta.
Sostiene di non amare i concerti, ma gli incontri comunitari, per questo non lo troverete mai sul palco del San Siro. Il consiglio è di aguzzare la vista e se leggete il suo nome su un manifesto, tra la sagra della salsiccia e gli spettacoli insulsi dei sostenitori della spettacolarizzazione trash, precipitatevi ad ascoltarlo, sarà una delle migliori esperienze della vostra vita.

VIDEOCONTRIBUTO BROZMANIANO

7 agosto 2010

ZEN AL BAR



ANGELO SPOSATO

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO (LA REDAZIONE)

Riteniamo che non ci sia più traccia in Calabria del Partito Democratico, di quel partito che avrebbe dovuto favorire un cambiamento realistico e radicale della nostra regione, che avrebbe dovuto ridare speranza ai calabresi che
credono nella capacità di autogoverno delle sue classi dirigenti e nei valori dell’innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità, ma che trovano oggi più di ieri la politica chiusa e che se provano ad avvicinarsi ad essa è più facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad una corrente o ad un gruppo di potere, piuttosto che a un’idea, ad un progetto. Oggi con il problema irrisolto di Autonomia e Diritti, con l’elezione del capogruppo in consiglio regionale da parte di soli 5 consiglieri regionali su 15 di area PD assistiamo in Calabria al definitivo tramonto di un’idea quella di un grande partito riformista, di massa che avrebbe dovuto essere la stella polare attorno alla quale creare un nuovo e rigenerato centro sinistra distante dai conservatorismi di destra e sinistra, che ci avrebbe consentito di ridare dignità e normalità al nostro paese e alla nostra regione. Oggi siamo convinti sia indispensabile un atto di grande responsabilità e generosità delle classi dirigenti regionali e del Commissario Musi: indire prima delle prossime elezioni amministrative, i Congressi provinciali e Regionali è l’ultima opportunità, per costruire democraticamente un percorso unitario e condiviso che favorisca un reale ricambio delle classi dirigenti del Partito democratico, affinché dopo la passata e deludente amministrazione Loiero, figlia dell’autoreferenzialità, possa ripartire una nuova fase che ridia speranza alla Calabria e che, con particolare riguardo alla crisi economica, sappia individuare soluzioni concrete e sia in grado di definire una proposta che assuma come obiettivo la crescita e la modernizzazione della nostra Regione da considerare come risorsa strategica di interesse nazionale. Ci permettiamo di concludere con una frase di Vincenzo Cuoco autore di un libro sulla Rivoluzione Napoletana del 1799 “ Alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini” Gli Ordini sono ovviamente le istituzioni tra le quali rientrano anche i partiti, che gli uomini devono impegnarsi a preservare con le loro passioni e il loro impegno.

Pino CAPALBO consigliere comunale PD Acri
Gianluca COSCHIGNANO coordinamento PD Acri
Giuseppe GAROFALO dirigente PD Acri
Roberto PERRI coordinamento PD Acri
Gianfranco SCALZO coordinamento PD Acri
Gianni TRIPOLI dirigente PD Acri
Domenico VACCARO coordinamento PD Acri -

5 agosto 2010

Miracolo a Bisignano. Ob-la-dì ob-la-dà, life goes on



Volontà, zelo, savoir faire, la parolina giusta nell’orecchio giusto, con assoluta nonchalance trotterellando na manu ntr’a sacchetta, l’altra a non mollare la stretta, e miracolo fatto, servito e pure riverito. Miracoli accussì in paese se ne scodellavano a iosa, dalla sera alla mattina, su ordinazione, a domicilio, con la regolarità delle feste comandate, dei pleniluni, degli orologi svizzeri, una puntualità puntellata …toh! Di fronte a tali rivelazioni taumaturgiche ognuno ad arrendersi, ritenendo sconveniente i si mintìri a vrigogna ppi cappiellu.
L’andazzo risultava comunque generale e le novità a disertare rigorosamente l’appello. «Cittine’, ha cucinatu? Ghiu fazzi pasta e favi. Mi nn’erani rimasti n’atri quattri ntru congelatori, e d’accussì…!» La campagna acquisti dell’udiccì al negozio dell’usato e abusato procedeva di gran lena. Le conferenze stampa high-tech dei maggiorenti di maggioranza e di minoranza si susseguivano ad intervalli regolari. Orazioni, petizioni, processioni. Prolusioni, presentazioni, felicitazioni. E poi le supposizioni supposte, gli altarini da svelare quel tanto che, la solita pillola da indorare o semplicemente ingoiare, la rievocazione del tempo che fu. Senza parlare dell’Attico in abbandono e degli assist parlamentari. Men che meno dei consigli disertati e degli sfoghi sui giornali. La stampa alla finestra ad ammannire con la solita minestra: «...adduv’è? ...Ma chi r’è? ...Ma chini c’é?» La vanagloria culturale degli Esposito e dei Fucile scampata alla politica e prestata alla storia, o viceversa, sfiorava a dir poco il leggendario, perché “per stupire mezz'ora basta un libro di storia” ma... I più solerti ad allenarsi in gargarismi post-co(g)ito: «VIR-TU-O-SO. Vedi! Vedi, come suona rotondo. La parola ti si srotola in bocca. UN-CO-MU-NE- VIR-TU-O-SO.» A pronunciarla tre o quattro volte, da crederci immantinente, trascurando scientemente la lezione di Aristotele che affermava come la virtù risplendesse nelle disgrazie. Insomma, nella merda fino al collo o con disposizione polictally correct quanto basta: s’andava, al solito, avanti avanti cumu u curdaru!
Sua Umiltà u sinnacu, con disposizione tribolata a mordersi le mani, a mazzicari chjuovi, ad autoinfliggersi spietate punizioni corporali, per trovar sollievo all’avversa sorte. …I mappini s’erani fatti tuvagli e ri tuvagli s’erani fatti mappini: …u munnu a ra lammersa! ....E che cazzo! Ogni pena un atto di fede. Ogni stimmate un atto di dolore. La speranza ormai un’abitudine. «Ogni 24 è di nuovo juornu, ogni 7 anni la fortuna a girare...», accussì farneticava. Prima i roghi per tutta un’estate, poi il diluvio tutt’inverno e pure a primavera... ché Duglia, in preda all’agitazione, aveva avuto persino l’ardire di andare a bussare alla sua di porta. E il depuratore a spandere vieppiù afrori e stimolare grattacapi e sudori... E le consultazioni provinciali a naufragare, ca puru ghillu s’era prisintatu... Qualche portatore d’acqua a tradirlo alla prima occasione propizia, altri ad attrezzarsi per ogni evenienza, assenze, mugugni, malumori. Qualche querela per non farsi mancare mai niente e un rinvio a giudizio ppi troppa abbunnanzia... E come se non bastasse varie ed eventuali... E che cazzo, nemmeno un attimo di respiro! Quasi che le rogne se le tirasse addosso con una calamita ben calibrata. Di tanto in tanto, tra sé e sé, pensava: «...ma chi me l’ha fatto fare?» E i concittadini, che da quell’orecchio ci sentivano eccome, sembrava che gli rispondessero pure: «...ma chi me l’ha fatto fare, a mmia, a ti vutari?» Una rogna, nondimeno, sopra tutte l’angustiava oltre ogni misura. La processione. Niente processione ppi Sant’Umile. E niente festeggiamenti ppi ru juornu sua! ...Ché era proprio una bella sberla alla sua ...di umiltà! ...Ché qualche altro anno, corcontento e (s)tirato a lucido, con la fascia tricolore lardellato, in prima fila al seguito del santo gli spettava di sicuro! Non ci dormiva neanche la notte per quell’affronto e per quell’umiliazione!
Tutto era nato per via del santuario della Riforma chiuso dietro sua stessa ordinanza, in seguito alle piogge così insistenti che non avevano lasciato niente d’intatto e incorrotto e messo tutto sottosopra per valli e colli, ...ché non c’era più una strada nel territorio municipale, che fosse ancora degna di definirsi tale. E danni c’erano stati pure alla Riforma, di striscio, na cosa quasi ‘i nenti. Per inclinazione a novanta dell’avversa sorte, tuttavia, i frati gli si erano schierati pure contro, che volevano un convento risanato, riformato e rinnovato, ...ché Sant’Umile, sebbene non ancora patrono della sua città natale, non era secondo nemmeno a Padre Pio e Bisignano non avrebbe dovuto sfigurare neanche davanti a San Giovanni Rotondo! U sinnacu non voleva certo fustigare o smorzare qualsivoglia entusiasmo o ambizione, ma che gli facessero fare prima la processione, ...ché lui ci teneva e tanto, benedett’Iddio! ...Ché i paesani pure ci tenevano! ...Ché non c’era stato un anno, ormai da secoli, che la processione non si fosse fatta. ...Ché gh’era puru malauguriu! Ma, ghillu povariellu, per queste ed altre più svariate sventure che colpa ne aveva? Gli ci voleva un miracolo. Un miracolo con tutti i santi crismi. Un miracolo ad hoc che gli risollevasse il morale e risolvesse la situazione. ...Ché ancora ghillu gherari u sinnacu! ...E chi cazzu!
E miracolo fu. In sogno, anzichenò.
Al manifestarsi di altre stimmati in sovrannumero, gli sovvenne la certezza che di nuovo ce l’avrebbe fatta a cavalcare l'andazzo con una bella sfilza di miracoli adatti alla bisogna, tali da non fare rimpiangere le non dozzinali manifestazioni taumaturgiche del passato e tali d’accrescergli a dismisura fama e venerabilità. Il fatto che si fosse già raggiunto il fondo, e la volontà non fosse stata d’impedimento dal cominciare a scavare, normalmente non avrebbe dovuto far pensare ad alcun miracolo, ma tanti erano i segni premonitori e le prove tangibili da non ammettere dubbi. Senza il minimo presagio le fontane a zampillar un’acqua pura, cristallina, oligominerale, diuretica, levissima. …Ruglia pi pochi un s’addissiccavari. ...A jìri a muccunu cuglienni buttunu, jenni e binienni sempi buttuni cuglienni, prima scampavari e roppi chjuvìari. …Cardilli, marivizzi, cucciarde, fravette, curivàttule, riviezzi a volare nel frangente in cui volassero e a non farlo nell’accidente inverso, …ché le sante bestiole alate voglia d’andar dietro i prodigi d’un sindaco in impasse non ne avevano affatto. I lampioni improvvisamente a germogliare luce, sfavillando in diretta e differita televisiva, in pieno giorno e senza spendere e spandere una lira (n. b.: perché ormai fuori corso). Cicale e grilli a non smetterla di frinire. Fabbriche come formicai a spuntar da sotto i cavoli con la rugiada del mattino, e a chiuder serranda in perpetuum, a sera tarda, prima del finale défilé. Debiti a palate, di soldi poche manciate e gran mangiate. Coriandoli, luccicori, sconfessioni. Festoni, bizzarrie, lucciconi. Tasso di disoccupazione inalterato. Adduvi zùmpavar’a crapa, zùmpavar’a cirivella! Nulla a caso. Tutto eviscerato e sviscerato nella cura manichea del particulare. Ogni buca dell’asfalto a farsi fosso, ogni fosso dirupo, ogni sporgenza dosso. All’ombra dei fossi e lungo le sponde dei torrenti non più alberi, arbusti o secche ma il supermarket d’ogni ben di Dio. Tre muti a riacquistar la vista. Un sordo a parlare per un’ora e 3/4, poi a zittirsi. Un cieco fallocefalo irreparabilmente afono, oracolo di delfi, tiresia, improbabile veggente, a giurar e spergiurare d’avvistare dischi volanti, asini alati, madonne lacrimare. Altri a guardare se potevano, sentire se volevano. Tutti senza principiare locuzioni, corrompere silenzi. Apparecchi ortodontoci e acustici, lenti ed occhiali, antipiretici, analgesici, sciroppi e pillole a diventare inutilmente indispensabili. Consumi stabili di cialis, levitra, viagra, sturalavandini e aiutini vari. Ingegneri, architetti, avvocati e professionisti già in lizza a godere a dismisura oppure mancu ppi ru cazzu! Appalti a raffica, sebbene a salve. L’Attico in abbandono a ritornare in gran spolvero. E cosi via...
«Gesùcristomio, eh cchi r’è? ...Ca mo’ raveri! ...N’atra vota? …Mo’ cci vo’! » La popolazione intera non ce la faceva più a reggere tutti i prodigi che si susseguivano senza interruzione alcuna, senza lasciare adito e alito pensante nel porre rimedio alla nuova calamità. Eh sì! ... Perché il troppo stroppia. Lo dice pure il proverbio.
Per ingraziarsi la nuova sorte, processione doveva essere, macchinava il sindaco e tutta la sua corte. Processione doveva essere, rimuginavano gli amministrati se non altro per porre un argine efficace a tutta quella congerie di prodigi fuori dall’ordinario. E così, all’improvviso o quasi, una sera sul finire d’agosto, una sera come mille altre, se non per il cielo stellato e una luna tonda da fare invidia pure al creatore, il corteo si snodò per vie e contrade. Fiaccole, accendini, cerini, in un tripudio di luci e friccicore. Trombette, trilli, strilla. Pifferi, ferracchjole, grandi ole. Qualcuno, con vezzo multiculturale, a canticchiare i Beatles di Obladì Obladà. Il sindaco tutto raggiante nella sua sfolgorante fascia tricolore, impettito e compunto col suo bel contorno, come un tacchino arrosto ormai stracotto, pronto per esser servito e riverito. Fra mani tese e gran pacche, qualcuno a passargli un accendino, una fiaccola, un cerino e ogni volta ghillu prontamente a sbarazzarsene, mente tutto tronfio e paonazzo scrutava di qua e di là, sopra e sotto, quasi a dimandare ad altrui certezze. «E cumpa Pinu, ca gh’è Gentile di nome e di fatto, nenti ha dittu?» ... «E ru viscuvu chi dicia?» ... «E a Berlusconi è statu rittu?»... «..Ma, su YouTube ‘un c’è ancora nenti?» E che festa tra gli assessori, fra frizzi, lazzi e schiamazzi! La stampa locale, libera ed intraprendente, a registrare la magnificenza fuori dal normale con orgoglio e puntiglio compiaciuto e/o compiacente. Nella ressa tutti ad avanzare lemme lemme che non si vedeva ad un passo. I mocciosi a spazientirsi, i vecchi a soffrire. Qualcuno a sorbirsi un gelato, altri a sdilinquirsi dietro un culo o un paio di tette. E dopo sorrisi e abbracci ognuno a curarsi del proprio deambulare. Persino il tizio intabarrato in un drappo d’un rosso stinto, sembrava non aver sbagliato appuntamento con la storia mentre s’accaniva imperterrito nel suo solito riff ormai in loop: «VIR-TU-O-SO. Vedi! Vedi, come suona rotondo. La parola ti si srotola in bocca. UN-CO-MU-NE- VIR-TU-O-SO.» Al che il sindaco, ormai annoiato per quella processione che sembrava non avesse principio e fine, l’azzittì di botto con parole ardite: «dotto’ ma chi cazzu fa ccu su strufinazzu?» Così proferendo gli porse celere l’ultimo cerino che gli capitò per mano. E fu così che con il sindaco in prima fila
e la sua giunta poco lontano,
si portò a spasso per il paese
la virtù perduta e la speranza vana.

Rosario Lombardo

LE IDI DI MARZO


MIMMO GALLIPOLI