Leggere Lester Bangs è come trascorrere una sbronza tra amici invasati, belle ragazze in minigonna e spogliarelli sotto la neve, magari finendo a fare sesso. Ma non solo questo, Lester è partecipe della mia adolescenza, della mia formazione musicale, del mio scrivere a volte gonzo, della mia passione per il rock and roll e per quel gesto incontrollato che è la parola! Un omaggio a lui in questa fine estate, al ricordo di voler diventare astronomo e... in qualche modo le stelle le ho viste ugualmente!
Angelo Sposato
Lester Bangs, Guida ragionevole al frastuono più atroce, Minimum Fax, Roma 2005(edizione italiana dell'antologia postuma Psychotic Reactions and Carburetor Dung, a cura di Greil Marcus, 1987)Introduzione di Wu Ming 1
A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così, anche l'industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: "Pensi che di questo passo l'unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una celebrità?" e lui ha risposto: "Non lo so". Capisci, io me ne sto qui e mi chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio lasciar perdere tutta questa roba. Non mi metto certo a fare sviolinate strappalacrime, perché, come ho detto prima, so che mi è andata bene, non devo alzarmi la mattina e andare a lavorare in fabbrica dalle nove alle cinque o qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante altre cose, quindi non dovrei fare pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solo perché non gli viene offerto qualcos'altro. E, personalmente, mi chiedo quando la gente comincerà a dire "No! Mi rifiuto, non ne voglio più!" (Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980)
Santo beatnik, Lester. Critico maudit, pazzo genio della scrittura gonzo, visse veloce d'arte e d'amore, incarnò lo spirito del rock'n'roll, morì giovane e povero etc. etc. Di là dall'Atlantico, dopo anni di 'sti clichés, c'è chi riflette su Lester in modo nuovo. Qui da noi tocca invece attraversare quella fase, da zero come fosse appena morto, ché ben poca gente sa chi sia 'sto Lester Bangs. Sfortunato, Lester, in Italia. Articoli in oscure fanzine che li conti sulle dita d'una mano, e poche traduzioni cagnesche, che dico, ringhianti in faccia al lettore tant'erano brutte. Niente di più. Urge dunque un po' di lavoro sporco. Clichés rigorosamente tra virgolette: Leslie Conway Bangs detto "Lester" (1949-1982), il critico rock più influente ("seminale") "di tutti i tempi" (non c'è gara, non c'è mai stata). Scrittura influenzata da Kerouac e Burroughs. Sul finire dei Sixties, con Richard Meltzer e Nick Tosches ("the Noise Boys") si mette di gran lena a "gettare le basi" della critica rock "militante" ("in anticipo di ben quattro mesi e mezzo su chiunque altro", dirà Meltzer). In pochi anni, Lester entra nell'empireo del New Journalism, per capirci: Tom Wolfe, Gay Talese, George Plimpton, ancorché più giovane di tutti costoro e in posizione defilata, nel "sotto-genere" gonzo (narrazioni picaresche imbottite di sostanze psicotrope), capostipite Hunter S. Thompson, e nel gonzo dentro un ulteriore sotto-genere, lo scrivere rock (che non è semplicemente lo scrivere di rock). Grafomane panatlantico, viene pubblicato su Rolling Stone, Creem, NME e il Village Voice. Canta in diverse band e incide qualche disco (mentre scrivo ascolto Jook Savages on the Brazos, Lester Bangs and the Delinquents, mp3 a 128k trovati su una scarna pagina web).Nel mondo di favella inglese è una "leggenda", Lester, canonizzata nell'antologia postuma che avete tra le mani (1987, a cura di Greil Marcus), nel film Almost Famous di Cameron Crowe (2000, Lester interpretato da Philip Seymour Hoffman), nella biografia Let It Blurt scritta da Jim DeRogatis (2000) e in un'antologia più recente, Mainlines, Blood Feasts and Bad Taste (2003, a cura di John Morthland). Ultimi trivia. Lester figura in una canzone dei REM: It's the End of the World As We Know It (And I feel fine) E' menzionato accanto a Leonard Bernstein, Leonid Breznev e Lenny Bruce, lo scenario è una festa di compleanno. Poi ci sono i Ramones di It's Not My Place. Lester è nominato accanto a Phil Spector, Jack Nicholson e Clint Eastwood. Curioso che entrambe le band chiamino in causa Lester per parlare del mondo e del mondano, in versi composti di nomi di VIP. Non è mica un VIP, Lester, è anzi l'outsider perenne, ostile a qualunque door policy e buttafuori. Piuttosto che entrare nel club "esclusivo" s'unisce agli esclusi sul marciapiede, fraternizza coi respinti dal dress code.Lester ha/incarna un'idea del rock'n'roll comunitaria, democratica, solidaristica. Nemico d'ogni pretenziosità e solipsismo, fa a pugni con lo zeitgeist degli anni Settanta, negli Usa (e nel rock) periodo di Restaurazione come dopo il Congresso di Vienna: parrucconi incipriati, verticismo, culto della celebrità, virtuosismo "progressivo" fine a se stesso... "Peccato che ti sei perso il rock", dice Lester a William Miller all'inizio di Almost Famous.Lester contrasta la Restaurazione esplorando, procedendo a tentoni, vagando nella notte in cui tutto il rock è grigio. Propugna "altri concetti di bellezza", glorifica "il frastuono atroce" fin quasi a condividere l'hobby di Stan Murch, personaggio dei romanzi di Donald E. Westlake. Murch compra e ascolta solo dischi con rumori di auto in corsa: accelerano, scalano di marcia, rallentano, arrivano vicino, di nuovo s'allontanano. E' nel mood più oscuro dell'epoca sentire sinfonie dentro Metal Machine Music. Perlomeno, Lou Reed è convinto di avercele messe.
Sa scrivere, Lester. Da piccolo scrive sequel alle storie di Verne, Stevenson, Dumas. Prima adolescenza, si tuffa nella letteratura di genere, fantascienza soprattutto, space operas, roba osteggiata dalla madre testimone di Geova: la Bibbia non parla di vita su altri pianeti, quindi non ce n'è, fine del dibattito. La scoperta della Beat Generation ha il prevedibile effetto disinibente. Intendiamoci, le solite cose: scrittura automatica, fame d'esperienza, tendenza a "innamorarsi all'istante" (del mondo, di una donna, di una canzone), voglia di scrivere "come un danzatore che agita il culo", tristezza quando il mondo delude le aspettative. Ma comprimete tutto questo nella recensione di un LP, massimo tre cartelle, e avrete una cosa diversa, lo stile che apre a Lester le porte di Rolling Stone. Su quelle pagine scriverà il necrologio di Kerouac, e il cerchio potrebbe anche chiudersi.Ma non si chiude. Dopo un po' Rolling Stone gli va stretta, inoltre il direttore Jann Wenner lo caccia (non parla bene dei dischi dei VIP), rieccolo a Detroit, la città di Creem, rivista più free-form con cui può andare a briglia sciolta. Da quelle pagine impone l'uso delle espressioni "punk rock" e "heavy metal". Scrive di Mingus e di free jazz: Albert Ayler, l'ultimo Coltrane. Recupera la British Invasion versante "duro" (Troggs e Yardbirds) e il garage rock più oscuro modello Count Five. Analizza il rock-blues malàrico e sghembo alla Captain Beefheart. Idolatra i Velvet Underground, o meglio, Lou Reed: acquitrini d'inchiostro sul loro "rapporto di amore/odio". Fa di Stooges e MC5 due cavalli di battaglia. S'addormenta ogni notte ubriaco con Iggy o i Black Sabbath in cuffia. La metà dei Seventies lo trova non poco scoglionato, c'è siccità nel mondo del rock. Si sposta a New York in cerca di una fonte, e la trova: pianta le tende nell'oasi del CBGB's: Ramones, Television, Voidoids, Patti Smith Group. Pian piano si scosta dalla scrittura spontanea, s'avvicina di più al modello dello scrittore stone cutter, che lima, cancella, riscrive, cesella. Non proprio la "fatica nera" d'un Fenoglio, ma nemmeno il rotolo di carta di On the Road. Non è il solo: Richard Meltzer afferma di scrivere ormai "più lento della merda ghiacciata".La "grande truffa rock'n'roll" è l'ennesima ustione all'anima. "Ogni decennio un auto-raggiro", così riassume la propria vita. Gemebondo, batte le vie di Manhattan e indaga sulle morti di Sid & Nancy. Scopre di far parte della schiera dei carnefici. Prova a trasferirsi in Texas ma cambia idea. Vuole disintossicarsi da alcool, speed e romilar. Alle serate degli Alcolisti Anonimi c'è anche Lou Reed. L'età della fattanza da ribelle/"maledetto" è finita, o almeno dovrebbe. Certe cose divertono se le scrive Bukowski (a volte, nemmeno sempre), ma scritte da uno qualunque dei millanta epigoni sparsi per l'Orbe... Il mercato dell'attenzione è saturo e farcito di dejà entendus. Il ribelle/"maledetto" è animale da sacrificio per i fighetti, che gli caricano la molla e vivono, tramite lui, trasgressioni vicarie. Infine il punkabbestia torna da papà, ed è pure questo un cliché nauseabondo, tanto che fa schifo enunciarlo. "Basta con le stronzate sull'amare la morte, una persona ha il dovere di trarre il meglio dalla vita", scrive Lester. C'è chi lo liquida con la parola tabù: "moralista". Sempre più sovente fanno capolino nella sua prosa parole come "decenza" e "integrità". Il "nihilismo" è il nemico ed è bello avere un cuore, ma iniziano gli anni Ottanta, decennio antisociale anzichenò. Comincia l'era del videoclip e di MTV, trafficante di celebrità immeritate. "Il videotape è freddo", dice Lester. Come lui la pensa Jack Horner in Boogie Nights: "Se si vede di merda, e si sente di merda, allora dev'essere merda".Parla di andare in Messico a scrivere "il suo romanzo", Lester, e pare non poterne più del rock. Eppure durante un incendio, fuggito di casa in mutande, ci ripensa e di corsa rientra. Per salvare che? La sua copia di Metal Box dei PIL.Poi muore.Non nell'incendio, s'intenda. Per cause sconosciute. Si dice sia colpa del Darvon, un tranquillante. Boh. Molti anni dopo Jim DeRogatis mostrerà a un luminare il referto dell'autopsia. "Frettoloso e superficiale", è il referto sul referto.
La critica al "culto di Lester" inizia ben presto. "All'indomani della sua morte, molti cercarono di mostrare che abbaiava ma non mordeva" (Meltzer). Si confonde lo stile di Lester con le sbrodolate d'inchiostro dei molti epigoni, che di lui non hanno capito niente. "Non imitate me", consigliava agli aspiranti critici rock. Difatti, non è quella l'eredità di Lester. E qual è, di grazia? Alcuni anni fa un personaggio della bohème bolognese utilizzava a scopo intorto una frase d'apertura: "Parlami un po' di me. Puoi anche esprimerti con parole tue". Che ricorda un po' una celebre battuta, forse di Cochi Ponzoni: "Ma lo sa che lei è sempre stato un mio grande ammiratore?" La "rockstar", il "divo", la "celebrità", ci ordinano di parlare di loro, lo fanno con la loro telepresenza e propaganda mercantile (quello hype che secondo Lester era "il nemico n.1"). L'industria culturale rende l'opera secondaria rispetto al personaggio, vende quest'ultimo e in subordine la prima. L'Autore diventa Autorità, la quale appunto dà ordini.Lester combattè una guerriglia incessante per riportare al centro della riflessione la musica, l'opus, e ridimensionare chi la suonava. A ragione, considerava l'artista un tramite, un intermediario, latore di una testimonianza, uno che svolge una funzione sociale. L'immagine della "rockstar" è l'esito dell'autonomizzazione del testimone rispetto alla testimonianza che reca. Il culto della celebrità è un "feticismo dell'intermediario". Parlando dei Led Zeppelin, degli Stones, di Elvis, Lester cartografava (talvolta letteralmente) i gradi di separazione tra artista e pubblico. I vari Presley, Jagger o Plant vedevano la comunità umana allontanarsi sugli orli di cerchi concentrici sempre più larghi. Svariate volte, negli scritti bangsiani, ricorre la metafora della rockstar come colui o colei che si costruisce il proprio campo di concentramento. E' quello che ha cercato di dire Roger Waters in The Wall: c'è qualcosa di fascista, nel rock. Il concerto rock come comizio nazi (In the Flesh) e l'impossibilità di uscire dal meccanismo: "Stop! / Voglio andare a casa, / togliermi quest'uniforme e mollare lo show / Ma sto aspettando in questa cella perché devo sapere: / sono stato colpevole per tutto questo tempo?". Non a caso Lester usava espressioni come "fascismo edonista" e "divertimento forzoso". L'obbligo a sembrare felici è tipico delle società totalitarie, quella dei consumi lo è fuor di ogni dubbio e, quanto ai consumi giovanili, non c'è ambito in cui il totalitarismo sia più denso e colloidale.
Lester sottoscriverebbe senz'altro le osservazioni del filosofo e psicanalista Miguel Benasayag:
Quando seguiamo le istruzioni e facciamo di tutto per arrivare a quello che ci è stato proposto come modello di felicità, siamo doppiamente infelici, perché il risultato atteso non si produce. La famosa frase: 'ha tutto per essere felice' non significa nulla. Non esiste un tutto oggettivo da cui può emergere la felicità. Non va dimenticato che le immagini identificatorie sono anche disciplinari. Nel nome della felicità diamo forma a una società fortemente disciplinata [...] L'attuale ricerca della felicità è liberticida è distruttrice, perché vissuta a livello individuale, come se intorno non esistesse più nulla.
"Una rockstar è solo una persona", ripeteva Lester. Serbava rancore nei confronti del punk perché non aveva mantenuto la promessa, non aveva rimosso le barriere. In seguito l'hardcore ebbe una forte spinta egualitaria, ma Lester morì agli albori di quel movimento. In ogni caso, anche l'hardcore perse la sua spinta propulsiva, diventando settario e nihilista o degenerando in musica frivola e insincera. Chissà poi che direbbe Lester della figura del DJ, divenuta oggetto di un'insensata reverenza, altrettanto e più divo di molte rockstar. Un tale che mette dischi! Non vi è dubbio che questo rappresenti un tradimento degli assunti egualitari, orizzontali e do-it-yourself alla base dell'esplosione house e techno tra anni Ottanta e Novanta. E la critica rock? Il culto della celebrità l'ha seriamente compromessa, oggi è principalmente un accessorio del consumo, con poche eccezioni.Per fortuna il consumo stesso sta cambiando, le vecchie modalità vengono spazzate via, l'industria del disco ha da cambiare o tirare le cuoia. L'artista viziato non può più vivere di rendita, ha da sbattersi, carburare a olio di gomito, riscoprire l'umiltà. In pratica, scarpinare e suonare, tornare a essere trovatore itinerante, cantastorie... latore di una testimonianza. Questo può abbattere le barriere, o renderle aggirabili, morte vestigia di un'epoca trascorsa. Forse il P2P sta finendo il lavoro cominciato dal punk.Mentre un potenziale di liberazione scalpita per esprimersi, la vecchia cultura indugia nella decadenza, la liturgia del rock è sempre meno credibile e più raffazzonata. Gli Oasis erano già una caricatura, che dire oggi dei Libertines? Siamo ancora alle pose da ribelli e bei tenebrosi mezzo secolo dopo il morso del primo verme al cadavere di James Dean? Jon Spencer sarà anche bravo, ma si crede Elvis, ed Elvis era già un cazzone, figurarsi i tardivi epigoni. Insomma, le rockstar sono ridicole come mai prima, a vent'anni sono già dinosauri, a trenta son già pronti per il paleontologo. In un simile contesto, messaggio e attitudine di Lester Bangs tornano attuali, finalmente liberi dalla camicia di forza degli stereotipi "maledettisti".Non c'è migliore occasione per conoscere Lester. Chi s'avvicina a lui per la prima volta ne tragga l'energia per le battaglie quotidiane e la forza per dire quei "No!" che, oggi più di ieri, sono imprescindibili.
Sa scrivere, Lester. Da piccolo scrive sequel alle storie di Verne, Stevenson, Dumas. Prima adolescenza, si tuffa nella letteratura di genere, fantascienza soprattutto, space operas, roba osteggiata dalla madre testimone di Geova: la Bibbia non parla di vita su altri pianeti, quindi non ce n'è, fine del dibattito. La scoperta della Beat Generation ha il prevedibile effetto disinibente. Intendiamoci, le solite cose: scrittura automatica, fame d'esperienza, tendenza a "innamorarsi all'istante" (del mondo, di una donna, di una canzone), voglia di scrivere "come un danzatore che agita il culo", tristezza quando il mondo delude le aspettative. Ma comprimete tutto questo nella recensione di un LP, massimo tre cartelle, e avrete una cosa diversa, lo stile che apre a Lester le porte di Rolling Stone. Su quelle pagine scriverà il necrologio di Kerouac, e il cerchio potrebbe anche chiudersi.Ma non si chiude. Dopo un po' Rolling Stone gli va stretta, inoltre il direttore Jann Wenner lo caccia (non parla bene dei dischi dei VIP), rieccolo a Detroit, la città di Creem, rivista più free-form con cui può andare a briglia sciolta. Da quelle pagine impone l'uso delle espressioni "punk rock" e "heavy metal". Scrive di Mingus e di free jazz: Albert Ayler, l'ultimo Coltrane. Recupera la British Invasion versante "duro" (Troggs e Yardbirds) e il garage rock più oscuro modello Count Five. Analizza il rock-blues malàrico e sghembo alla Captain Beefheart. Idolatra i Velvet Underground, o meglio, Lou Reed: acquitrini d'inchiostro sul loro "rapporto di amore/odio". Fa di Stooges e MC5 due cavalli di battaglia. S'addormenta ogni notte ubriaco con Iggy o i Black Sabbath in cuffia. La metà dei Seventies lo trova non poco scoglionato, c'è siccità nel mondo del rock. Si sposta a New York in cerca di una fonte, e la trova: pianta le tende nell'oasi del CBGB's: Ramones, Television, Voidoids, Patti Smith Group. Pian piano si scosta dalla scrittura spontanea, s'avvicina di più al modello dello scrittore stone cutter, che lima, cancella, riscrive, cesella. Non proprio la "fatica nera" d'un Fenoglio, ma nemmeno il rotolo di carta di On the Road. Non è il solo: Richard Meltzer afferma di scrivere ormai "più lento della merda ghiacciata".La "grande truffa rock'n'roll" è l'ennesima ustione all'anima. "Ogni decennio un auto-raggiro", così riassume la propria vita. Gemebondo, batte le vie di Manhattan e indaga sulle morti di Sid & Nancy. Scopre di far parte della schiera dei carnefici. Prova a trasferirsi in Texas ma cambia idea. Vuole disintossicarsi da alcool, speed e romilar. Alle serate degli Alcolisti Anonimi c'è anche Lou Reed. L'età della fattanza da ribelle/"maledetto" è finita, o almeno dovrebbe. Certe cose divertono se le scrive Bukowski (a volte, nemmeno sempre), ma scritte da uno qualunque dei millanta epigoni sparsi per l'Orbe... Il mercato dell'attenzione è saturo e farcito di dejà entendus. Il ribelle/"maledetto" è animale da sacrificio per i fighetti, che gli caricano la molla e vivono, tramite lui, trasgressioni vicarie. Infine il punkabbestia torna da papà, ed è pure questo un cliché nauseabondo, tanto che fa schifo enunciarlo. "Basta con le stronzate sull'amare la morte, una persona ha il dovere di trarre il meglio dalla vita", scrive Lester. C'è chi lo liquida con la parola tabù: "moralista". Sempre più sovente fanno capolino nella sua prosa parole come "decenza" e "integrità". Il "nihilismo" è il nemico ed è bello avere un cuore, ma iniziano gli anni Ottanta, decennio antisociale anzichenò. Comincia l'era del videoclip e di MTV, trafficante di celebrità immeritate. "Il videotape è freddo", dice Lester. Come lui la pensa Jack Horner in Boogie Nights: "Se si vede di merda, e si sente di merda, allora dev'essere merda".Parla di andare in Messico a scrivere "il suo romanzo", Lester, e pare non poterne più del rock. Eppure durante un incendio, fuggito di casa in mutande, ci ripensa e di corsa rientra. Per salvare che? La sua copia di Metal Box dei PIL.Poi muore.Non nell'incendio, s'intenda. Per cause sconosciute. Si dice sia colpa del Darvon, un tranquillante. Boh. Molti anni dopo Jim DeRogatis mostrerà a un luminare il referto dell'autopsia. "Frettoloso e superficiale", è il referto sul referto.
La critica al "culto di Lester" inizia ben presto. "All'indomani della sua morte, molti cercarono di mostrare che abbaiava ma non mordeva" (Meltzer). Si confonde lo stile di Lester con le sbrodolate d'inchiostro dei molti epigoni, che di lui non hanno capito niente. "Non imitate me", consigliava agli aspiranti critici rock. Difatti, non è quella l'eredità di Lester. E qual è, di grazia? Alcuni anni fa un personaggio della bohème bolognese utilizzava a scopo intorto una frase d'apertura: "Parlami un po' di me. Puoi anche esprimerti con parole tue". Che ricorda un po' una celebre battuta, forse di Cochi Ponzoni: "Ma lo sa che lei è sempre stato un mio grande ammiratore?" La "rockstar", il "divo", la "celebrità", ci ordinano di parlare di loro, lo fanno con la loro telepresenza e propaganda mercantile (quello hype che secondo Lester era "il nemico n.1"). L'industria culturale rende l'opera secondaria rispetto al personaggio, vende quest'ultimo e in subordine la prima. L'Autore diventa Autorità, la quale appunto dà ordini.Lester combattè una guerriglia incessante per riportare al centro della riflessione la musica, l'opus, e ridimensionare chi la suonava. A ragione, considerava l'artista un tramite, un intermediario, latore di una testimonianza, uno che svolge una funzione sociale. L'immagine della "rockstar" è l'esito dell'autonomizzazione del testimone rispetto alla testimonianza che reca. Il culto della celebrità è un "feticismo dell'intermediario". Parlando dei Led Zeppelin, degli Stones, di Elvis, Lester cartografava (talvolta letteralmente) i gradi di separazione tra artista e pubblico. I vari Presley, Jagger o Plant vedevano la comunità umana allontanarsi sugli orli di cerchi concentrici sempre più larghi. Svariate volte, negli scritti bangsiani, ricorre la metafora della rockstar come colui o colei che si costruisce il proprio campo di concentramento. E' quello che ha cercato di dire Roger Waters in The Wall: c'è qualcosa di fascista, nel rock. Il concerto rock come comizio nazi (In the Flesh) e l'impossibilità di uscire dal meccanismo: "Stop! / Voglio andare a casa, / togliermi quest'uniforme e mollare lo show / Ma sto aspettando in questa cella perché devo sapere: / sono stato colpevole per tutto questo tempo?". Non a caso Lester usava espressioni come "fascismo edonista" e "divertimento forzoso". L'obbligo a sembrare felici è tipico delle società totalitarie, quella dei consumi lo è fuor di ogni dubbio e, quanto ai consumi giovanili, non c'è ambito in cui il totalitarismo sia più denso e colloidale.
Lester sottoscriverebbe senz'altro le osservazioni del filosofo e psicanalista Miguel Benasayag:
Quando seguiamo le istruzioni e facciamo di tutto per arrivare a quello che ci è stato proposto come modello di felicità, siamo doppiamente infelici, perché il risultato atteso non si produce. La famosa frase: 'ha tutto per essere felice' non significa nulla. Non esiste un tutto oggettivo da cui può emergere la felicità. Non va dimenticato che le immagini identificatorie sono anche disciplinari. Nel nome della felicità diamo forma a una società fortemente disciplinata [...] L'attuale ricerca della felicità è liberticida è distruttrice, perché vissuta a livello individuale, come se intorno non esistesse più nulla.
"Una rockstar è solo una persona", ripeteva Lester. Serbava rancore nei confronti del punk perché non aveva mantenuto la promessa, non aveva rimosso le barriere. In seguito l'hardcore ebbe una forte spinta egualitaria, ma Lester morì agli albori di quel movimento. In ogni caso, anche l'hardcore perse la sua spinta propulsiva, diventando settario e nihilista o degenerando in musica frivola e insincera. Chissà poi che direbbe Lester della figura del DJ, divenuta oggetto di un'insensata reverenza, altrettanto e più divo di molte rockstar. Un tale che mette dischi! Non vi è dubbio che questo rappresenti un tradimento degli assunti egualitari, orizzontali e do-it-yourself alla base dell'esplosione house e techno tra anni Ottanta e Novanta. E la critica rock? Il culto della celebrità l'ha seriamente compromessa, oggi è principalmente un accessorio del consumo, con poche eccezioni.Per fortuna il consumo stesso sta cambiando, le vecchie modalità vengono spazzate via, l'industria del disco ha da cambiare o tirare le cuoia. L'artista viziato non può più vivere di rendita, ha da sbattersi, carburare a olio di gomito, riscoprire l'umiltà. In pratica, scarpinare e suonare, tornare a essere trovatore itinerante, cantastorie... latore di una testimonianza. Questo può abbattere le barriere, o renderle aggirabili, morte vestigia di un'epoca trascorsa. Forse il P2P sta finendo il lavoro cominciato dal punk.Mentre un potenziale di liberazione scalpita per esprimersi, la vecchia cultura indugia nella decadenza, la liturgia del rock è sempre meno credibile e più raffazzonata. Gli Oasis erano già una caricatura, che dire oggi dei Libertines? Siamo ancora alle pose da ribelli e bei tenebrosi mezzo secolo dopo il morso del primo verme al cadavere di James Dean? Jon Spencer sarà anche bravo, ma si crede Elvis, ed Elvis era già un cazzone, figurarsi i tardivi epigoni. Insomma, le rockstar sono ridicole come mai prima, a vent'anni sono già dinosauri, a trenta son già pronti per il paleontologo. In un simile contesto, messaggio e attitudine di Lester Bangs tornano attuali, finalmente liberi dalla camicia di forza degli stereotipi "maledettisti".Non c'è migliore occasione per conoscere Lester. Chi s'avvicina a lui per la prima volta ne tragga l'energia per le battaglie quotidiane e la forza per dire quei "No!" che, oggi più di ieri, sono imprescindibili.
Wu Ming 1, settembre 2004
22 commenti:
Il suo nome l'ho imparato dalle pagine di Mucchio Selvaggio qualche anno fa. Penso pure di aver letto qualcosa di Lester Bangs pubblicato dall'edizioni Lakota... ma non ricordo bene.
A proposito, ed un link con Mucchio a quanto?
ZERO
The Smashing Pumkins
Grande Angelo!!! parliamo come dobbiamo parlare...
Scusa se ti dicco che siamo stanchi di parole dette al vento, da dire ed impossibili da spiegare.
Gli unici intellettuali esistenti su questa cazzo di bastarda terra, sono quelli che si fanno capire.
Sono quelli che ti fanno incazzare, sognare e capire.....
(non parlo di D'alessio,Ligabue o jovanotti)
Non servono i jk o i ninnillo ca sa parranu tra loru cumu dottori o daureeti.
Parreet allu popol, e si voditi parreri in codice o in endecasillabi, facitillu allu bar, facitillu allu bar, facitillu allu bar.
L'abbiamo capito che siete dotti nel gergo letterario, sappiamo che la grammatica per voi è cosa comune. Ma nel momento in cui il popolo non vi comprende voi diventate niente, come lingua straniera, come suono ad un sordo, come luce ad un cieco.
Siamo in un Blog si!!
Ed io che pensavo che la vita fosse in televisione! Me la ritrovo allu bar ed usa le parole del popolo. ...Ma quale popolo? Cos'è il popolo? La scuola dell'obbligo in Italia, almeno per il momento è pubblica ed il numero dei patentati non mi pare affatto esiguo. Ognuno scrive come mangia, e se mangia male vive male.
j.xck, di grazia, ma che cacchio sono le seghe moribonde. Moribonde o arzille smpre seghe sono.
TRILUSSA: ER DISCORSO DE LA CORONA
C'era una vorta un Re così a la mano
ch'annava sempre a piedi come un omo,
senza fanfare, senza maggiordomo,
senza ajutante ... ; insomma era un Sovrano
che quanno se mischiava fra la gente
pareva quasi che nun fosse gnente.
A la Reggia era uguale: immagginate
che nun dava mai feste, e certe vorte
ch'era obbrigato a dà' li pranzi a Corte
je faceva li gnocchi de patate,
perché - pensava - la democrazzia
se basa tutta su l'economia.
- Lei me pare ch'è un Re troppo a la bona:
- je diceva spessissimo er Ministro –
e così nun pó annà, cambi reggistro,
se ricordi che porta la Corona,
e er popolo je passa li bajocchi
perché je dia la porvere nell'occhi. -
Ma lui nun ce badava: era sincero,
diceva pane ar pane e vino ar vino;
scocciato d'esse er primo cittadino finiva
pe' regnà soprappensiero,
e in certi casi succedeva spesso
che se strillava « abbasso » da lui stesso.
Un giorno che s'apriva er Parlamento
dovette fa' un discorso, ma nun lesse
la solita filara de promesse
che se ne vanno come fumo ar vento:
'Sta vorta tanto - disse - nun so' io
se nu' je la spiattello a modo mio! -
E cominciò: - Signori deputati!
Credo che su per giù sarete tutti
mezzi somari e mezzi farabbutti
come quell'antri che ce so' già stati,
ma ormai ce séte e basta la parola,
la volontà der popolo è una sola !
Conosco bene le vijaccherie
ch'avete fatto per avé 'sto posto,
e tutte quel'idee che v'hanno imposto
le banche, le parrocchie e l'osterie...
Ma ormai ce sete, ho detto, e bene o male
ríspecchiate er pensiero nazzionale.
Dunque forza a la machina! Er Governo
è pronto a fa' qualunque umijazzione
purché je date la soddisfazzione
de fallo restà su, tutto l'inverno;
poi verrà chi vorrà: tanto er Paese
se ne strafotte e vive su le spese,
Pe' conto mio nun vojo che un piacere:
che me lassate in pace; in quanto ar resto
fate qúer che ve pare: nun protesto,
conosco troppo bene er mi' mestiere;
io regno 'e nun governo e co' 'sta scusa
fo li decreti e resto a bocca chiusa.
Io servo a inaugurà li monumenti
e a corre su li loghi der disastro;
ma nun me vojo mette ne l'incastro
fra tutti 'sti partiti intransiggenti:
anzi j'ho detto: Chiacchierate puro,
ché più ve fo parlà più sto sicuro.
Defatti la Repubbrica s'addorme
davanti a li ritratti de Mazzini,
er Socialismo cerca li quatrini,
sconta cambiali e studia le riforme,
e quello de la barca de San Pietro
nun sa se rema avanti o rema addietro.
A 'sto punto er Sovrano arzò la testa
e vidde che nun c'era più nessuno
perché li deputati, uno per uno,
èreno usciti in segno de protesta.
- Benone! - disse - Vedo finarmente
un Parlamento onesto e inteliggente!
Primum vivere deinde philosophari.
Il popolo come sommatoria d' esistenze allo sbando?
Epigono o discepolo di Bauman le domando?
O semplice barman alle prese con liquidi e liquidità
Che di seghe se ne sbatte a sazietà?
La community degli acresi nel solito-insolito bla bla bla
amici parenti e qualche parvenu di passaggio
alla ricerca d'un nuovo-vecchio miraggio
finisce comunque sempre a sazizza vino:chi bera novità!
La permalosità non ti fa certo difetto esimio Mr.J.xck! L'ironia è un'arma a doppia punta a volte. Il fatto è che sei ritornato per ben tre volte sul punto, accappigliandoti solo con te stesso.
Il punto é: cos'è il popolo? Quale popolo? E... perchè ci si appella sempre al popolo per confortarsi della propria visione del mondo?
Il popolo sovrano. Il popolo coglione. Il popolo bambino.
Da “Parole Sante” di Ascanio Celestini, Il popolo è un bambino-1
Il popolo è un bambino.
Non ci capisce niente di politica.
Se tu gli parli di rivoluzione e lo fai seriamente finisce che il popolo la fa per davvero la rivoluzione.
Allora bisogna fare come ha fatto il partito comunista.
La rivoluzione gliel’ha fatta vedere da lontano al popolo come una ballerina della televisione.
Il popolo è un bambino e gli piace guardare le ballerine.
I maschietti si guardano la televisione perché gli piace il culo delle ballerine.
E le femminucce si guardano la televisione perché vorrebbero averci il culo delle ballerine.
Tutti guardano il culo in tv.
Ma sia le femminucce che i maschietti sanno che la tv è un elettrodomestico.
Che quel culo esiste solo là dentro.
Si guardano intorno e la realtà è che si ritrovano sul divanetto del loro appartamento senza culo e senza balletto.
Ma sono contenti lo stesso perché tutte le volte che ri-accenderanno il televisore ci avranno un culo in diretta pronto per essere guardato.
E non importa che sia finto come la favola di Cenerentola.
Importa solo che dopo il culo in diretta si vada a letto sereni.
Al popolo gli piace la rivoluzione, ma gliela devi mostrare come il culo delle ballerine.
Come una cosa bella e impossibile.
Gliela devi raccontare come una favola.
Esimio J.cxk il fatto è che io non tollero gli appelli al popolo o se vuoi il populismo. …Ma forse non avrei dovuto intervenire in una discussione (con codici, un passato comune, una conoscenza di persona e una complicità a me ovviamente sconosciuti) tra quattro amici al bar. E me ne scuso. …E questo è il limite del vostro blog come di altri. La cerchia ristretta che si crogiola nei suoi guai e nelle sue gioie: lecito ma non mi appassiona più di tanto.
La cosa che mi dispiace è che nessun altro sia intervenuto nella discussione, e che nessuno si ponga (in generale intendo) il problema dell’efficacia del web come strumento di comunicazione di massa. Io ho l’impressione che la tv abbia ancora il suo primato nel popolo e fra il popolo. Da qui molte implicazioni nella nostra società ad incominciare da una certa "passività" dello stesso popolo.
Perdonami per l’esiguità dei miei argomenti ma le mie lezioni di filosofia mi aspettani. Oggi finalmente i pre-socratici!
Ad maiora.
Esimio J.cxk il fatto è che io non tollero gli appelli al popolo o se vuoi il populismo. …Ma forse non avrei dovuto intervenire in una discussione (con codici, un passato comune, una conoscenza di persona e una complicità a me ovviamente sconosciuti) tra quattro amici al bar. E me ne scuso. …E questo è il limite del vostro blog come di altri. La cerchia ristretta che si crogiola nei suoi guai e nelle sue gioie: lecito ma non mi appassiona più di tanto.
La cosa che mi dispiace è che nessun altro sia intervenuto nella discussione, e che nessuno si ponga (in generale intendo) il problema dell’efficacia del web come strumento di comunicazione di massa. Io ho l’impressione che la tv abbia ancora il suo primato nel popolo e fra il popolo. Da qui molte implicazioni nella nostra società ad incominciare da una certa "passività" dello stesso popolo.
Perdonami per l’esiguità dei miei argomenti ma le mie lezioni di filosofia mi aspettani. Oggi finalmente i pre-socratici!
Ad maiora.
Patafisica, metafisica, ostrogoto, solecismi, minchiate manifeste ( Wu Ming v’ispira) détournement… Come fiumi in piena! L’incomunicabilità è il nostro pane quotidiano e pure voi vi rifocillate a questa mensa. Filosofeggiamoci pure addosso!
Evidentemente neanche tu Mr J.cxk sei immune!Con quale lingua intendi parlare al tuo popolo, esimio? Con la tua? Mi sembra tanto un bel pavoneggiarsi inutile il nostro.
Io mi guardo intorno e vedo gente che non legge i giornali figurati i libri. Il diploma e la laurea un contentino a mamma e papà, il decoro borghese, lo status. Gente sempre attaccata al suo maledetto telefonino, i-pod, i-phone. Gente che vuol far la velina o il calciatore. Gente che peregrina per sacrestie, segreterie, astanterie, camere da letto pur di assecondare voleri e poteri dell’assessorino di turno. Gente che se ne frega del cinema, del teatro, della filosofia, della cultura in senso lato, strictu sensu, post moderna, classica… Gente sempre prona, sempre pronta a ru pijari ‘nculu, che non vuole affatto starsene a testa alta ed anelare ad una vita di libertà, degna (in qualche modo) d’essere vissuta. Gente che si aspetta il miracolo parimenti ( invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia) da padre Pio, dal Beato Angelo, da Sant’Umile, dalla Vergine Maria, da Berlusconi, dal consigliere di opposizione e di circoscrizione…. E potrei continuare ad infinitum. Me ne frego del popolo ecco! Vada al diavolo! Eppure ne faccio parte, lo so. Ciò non toglie che io stia male in questa società che dat census honores. Più o meno di voi, signori non so! Qui habet aures audiendi, audiat.
E poi non sono affatto un poeta, tutt’al più uno scribacchino, un imbrattacarte, un scriteriato scrittorucolo senza patente… Di laureato beh poi! Chiamatemi Bartleby: (io preferirei di no, ricordate?) E come Giovanni Drogo dalla mia fortezza Bastiani, aspetto che da deserto si palesi il nemico, il sol dell’avvenire, quel quid che io possa cogliere per ricominciare ad avere fiducia in chini tena due grupira a ru nasu!
E poi odio le chat, i commenti dei commenti, o come diavolo si chiamano. Basta, per carità. Ci sarò modo di capirsi col tempo e forse scoprire che la pensiamo allo stesso modo. Ok, la colpa è mia! Mi piace stuzzicare il velopendulo del narcisismo altrui.
Almeno in questa occasione, avrei voluto avere la sintesi, lo stile, e la forza di Pintor, pace all’anima sua!
Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio). Non al denaro non all’amore né al cielo. Fabrizio De André. 1971.
“/…/…e la luce del giorno si divide la piazza / tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa, / e neppure la notte ti lascia da solo: / gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.”
Dialogo I (Monologo) di Giorgio Gaber. Dialogo tra un impegnato e un non so. 1972
Voce fuori campo — Chi sei?
Giorgio Gaber — Mah, non so.
Voce fuori campo — Chi sei?
Giorgio Gaber — Sono un non so.
Voce fuori campo — L’ironia è un’arma della borghesia. Chi sei?
Giorgio Gaber — Sono… sono uno che scrive.
Voce fuori campo — Ah, sei un poeta!
Giorgio Gaber — Beh, chiamami come ti pare.
Voce fuori campo — Un poeta rivoluzionario?
Giorgio Gaber — Sì, rivoluzionario.
Voce fuori campo — E di cosa parli?
Giorgio Gaber — Parlo dell’uomo, dei suoi rapporti, dell’amore, parlo di un albero…
Voce fuori campo — Ah, di un albero, ero lì che ti aspettavo! Ma non lo sai che parlare di un albero in tempo di rivoluzione è come tradire la rivoluzione?
Giorgio Gaber — C’è la rivoluzione?
Voce fuori campo — Non fare lo spiritoso! Parlavo dell’impegno, dell’impegno ideologico.
Giorgio Gaber — Questa l’ho già sentita.
Voce fuori campo — L’hai già sentita ma non l’hai imparata.
Giorgio Gaber — Non è che non l’ho imparata, è che a me non interessa il cervello che va, va, chissà dove… deve passare di qui, dentro. È l’istinto che mi interessa, lo stomaco!
Voce fuori campo — Ah, lo stomaco, ero lì che ti aspettavo!
Giorgio Gaber — Eh ma tu mi aspetti sempre da tutte le parti!
Voce fuori campo — Per forza, fai ancora il discorso sui sentimenti, sui dolori… lo so dove vuoi arrivare. Ma credi veramente di servire a qualcosa?
Giorgio Gaber — Mah, non so. Servo a qualcosa? Dite, ditelo voi, servo a qualcosa?… non dicono.
Voce fuori campo — Non servi a niente! Sei un poeta borghese. Ti rinchiudi in te, non riesci a tirare fuori un’idea, modificarla, cambiarla.
Giorgio Gaber — Un’idea, modificarla, cambiarla, elaborarla… ci vuole mica tanto! È cambiarsi davvero, è cambiarsi di dentro che è un’altra cosa!
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