15 aprile 2014

GIUSEPPE ANTONIO ARENA, LITOFAGO GA

La maggior parte della filmografia su Napoli ed ambientata in essa rappresenta la città sempre illuminata dal sole, in una sorta di estate perenne che richiama pomodori e camorristi scamiciati, quasi a rendere, questi ultimi, dei personaggi tropicali, esotici, quindi, lontani ed estranei, appartenenti a favelas e rolex di altri continenti sul tropico del cancro.
Giuseppe Antonio Arena o Litofago GA era di Duglia e sembrava venisse anche da altri posti. Del resto, un intellettuale come lui viene dai luoghi che visita e vive e da quelli che legge e scrive. I luoghi di una fisicità del corpo e dell'anima, l'impatto tellurico con città, libri, persone, marciapiedi e panorami. I terremoti sono sempre un'evoluzione.
Era di fine aprile quel 1995, chissà se Napoli era piovosa e bukowskiana, sicuramente anarchica simile all'anarchismo contadino di cui scriveva il Litofago GA. E se c'era il sole sembrava solo una presa per il culo, un inganno della morte.
Arena tornò a Napoli come suo solito, e solito fu il silenzio, quello parlato da molte sue partenze. Nulla di strano, era fatto così. Ma i giorni infilati a grani di rosario infetti non erano di silenzio parlato, quel silenzio era muto.
Lui che provocò emorragie nelle armature sociali, che permise alle realtà nascoste di fuoriuscire da una pelle di racconto stesso che non le raccontava, alla fine fu trovato morto per emorragia cerebrale, intorno al dieci maggio, ironia della sorte, forse, perché la sua mente era troppo affollata.
La sua adesso è una vita altrove, se ce n'è uno, ma la sua vita qui dovrebbe essere vita nostra e non basta pensare “se io fossi Patti Smith”, come in una sua famosa poesia.


ANGELO SPOSATO

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