5 agosto 2010

Miracolo a Bisignano. Ob-la-dì ob-la-dà, life goes on



Volontà, zelo, savoir faire, la parolina giusta nell’orecchio giusto, con assoluta nonchalance trotterellando na manu ntr’a sacchetta, l’altra a non mollare la stretta, e miracolo fatto, servito e pure riverito. Miracoli accussì in paese se ne scodellavano a iosa, dalla sera alla mattina, su ordinazione, a domicilio, con la regolarità delle feste comandate, dei pleniluni, degli orologi svizzeri, una puntualità puntellata …toh! Di fronte a tali rivelazioni taumaturgiche ognuno ad arrendersi, ritenendo sconveniente i si mintìri a vrigogna ppi cappiellu.
L’andazzo risultava comunque generale e le novità a disertare rigorosamente l’appello. «Cittine’, ha cucinatu? Ghiu fazzi pasta e favi. Mi nn’erani rimasti n’atri quattri ntru congelatori, e d’accussì…!» La campagna acquisti dell’udiccì al negozio dell’usato e abusato procedeva di gran lena. Le conferenze stampa high-tech dei maggiorenti di maggioranza e di minoranza si susseguivano ad intervalli regolari. Orazioni, petizioni, processioni. Prolusioni, presentazioni, felicitazioni. E poi le supposizioni supposte, gli altarini da svelare quel tanto che, la solita pillola da indorare o semplicemente ingoiare, la rievocazione del tempo che fu. Senza parlare dell’Attico in abbandono e degli assist parlamentari. Men che meno dei consigli disertati e degli sfoghi sui giornali. La stampa alla finestra ad ammannire con la solita minestra: «...adduv’è? ...Ma chi r’è? ...Ma chini c’é?» La vanagloria culturale degli Esposito e dei Fucile scampata alla politica e prestata alla storia, o viceversa, sfiorava a dir poco il leggendario, perché “per stupire mezz'ora basta un libro di storia” ma... I più solerti ad allenarsi in gargarismi post-co(g)ito: «VIR-TU-O-SO. Vedi! Vedi, come suona rotondo. La parola ti si srotola in bocca. UN-CO-MU-NE- VIR-TU-O-SO.» A pronunciarla tre o quattro volte, da crederci immantinente, trascurando scientemente la lezione di Aristotele che affermava come la virtù risplendesse nelle disgrazie. Insomma, nella merda fino al collo o con disposizione polictally correct quanto basta: s’andava, al solito, avanti avanti cumu u curdaru!
Sua Umiltà u sinnacu, con disposizione tribolata a mordersi le mani, a mazzicari chjuovi, ad autoinfliggersi spietate punizioni corporali, per trovar sollievo all’avversa sorte. …I mappini s’erani fatti tuvagli e ri tuvagli s’erani fatti mappini: …u munnu a ra lammersa! ....E che cazzo! Ogni pena un atto di fede. Ogni stimmate un atto di dolore. La speranza ormai un’abitudine. «Ogni 24 è di nuovo juornu, ogni 7 anni la fortuna a girare...», accussì farneticava. Prima i roghi per tutta un’estate, poi il diluvio tutt’inverno e pure a primavera... ché Duglia, in preda all’agitazione, aveva avuto persino l’ardire di andare a bussare alla sua di porta. E il depuratore a spandere vieppiù afrori e stimolare grattacapi e sudori... E le consultazioni provinciali a naufragare, ca puru ghillu s’era prisintatu... Qualche portatore d’acqua a tradirlo alla prima occasione propizia, altri ad attrezzarsi per ogni evenienza, assenze, mugugni, malumori. Qualche querela per non farsi mancare mai niente e un rinvio a giudizio ppi troppa abbunnanzia... E come se non bastasse varie ed eventuali... E che cazzo, nemmeno un attimo di respiro! Quasi che le rogne se le tirasse addosso con una calamita ben calibrata. Di tanto in tanto, tra sé e sé, pensava: «...ma chi me l’ha fatto fare?» E i concittadini, che da quell’orecchio ci sentivano eccome, sembrava che gli rispondessero pure: «...ma chi me l’ha fatto fare, a mmia, a ti vutari?» Una rogna, nondimeno, sopra tutte l’angustiava oltre ogni misura. La processione. Niente processione ppi Sant’Umile. E niente festeggiamenti ppi ru juornu sua! ...Ché era proprio una bella sberla alla sua ...di umiltà! ...Ché qualche altro anno, corcontento e (s)tirato a lucido, con la fascia tricolore lardellato, in prima fila al seguito del santo gli spettava di sicuro! Non ci dormiva neanche la notte per quell’affronto e per quell’umiliazione!
Tutto era nato per via del santuario della Riforma chiuso dietro sua stessa ordinanza, in seguito alle piogge così insistenti che non avevano lasciato niente d’intatto e incorrotto e messo tutto sottosopra per valli e colli, ...ché non c’era più una strada nel territorio municipale, che fosse ancora degna di definirsi tale. E danni c’erano stati pure alla Riforma, di striscio, na cosa quasi ‘i nenti. Per inclinazione a novanta dell’avversa sorte, tuttavia, i frati gli si erano schierati pure contro, che volevano un convento risanato, riformato e rinnovato, ...ché Sant’Umile, sebbene non ancora patrono della sua città natale, non era secondo nemmeno a Padre Pio e Bisignano non avrebbe dovuto sfigurare neanche davanti a San Giovanni Rotondo! U sinnacu non voleva certo fustigare o smorzare qualsivoglia entusiasmo o ambizione, ma che gli facessero fare prima la processione, ...ché lui ci teneva e tanto, benedett’Iddio! ...Ché i paesani pure ci tenevano! ...Ché non c’era stato un anno, ormai da secoli, che la processione non si fosse fatta. ...Ché gh’era puru malauguriu! Ma, ghillu povariellu, per queste ed altre più svariate sventure che colpa ne aveva? Gli ci voleva un miracolo. Un miracolo con tutti i santi crismi. Un miracolo ad hoc che gli risollevasse il morale e risolvesse la situazione. ...Ché ancora ghillu gherari u sinnacu! ...E chi cazzu!
E miracolo fu. In sogno, anzichenò.
Al manifestarsi di altre stimmati in sovrannumero, gli sovvenne la certezza che di nuovo ce l’avrebbe fatta a cavalcare l'andazzo con una bella sfilza di miracoli adatti alla bisogna, tali da non fare rimpiangere le non dozzinali manifestazioni taumaturgiche del passato e tali d’accrescergli a dismisura fama e venerabilità. Il fatto che si fosse già raggiunto il fondo, e la volontà non fosse stata d’impedimento dal cominciare a scavare, normalmente non avrebbe dovuto far pensare ad alcun miracolo, ma tanti erano i segni premonitori e le prove tangibili da non ammettere dubbi. Senza il minimo presagio le fontane a zampillar un’acqua pura, cristallina, oligominerale, diuretica, levissima. …Ruglia pi pochi un s’addissiccavari. ...A jìri a muccunu cuglienni buttunu, jenni e binienni sempi buttuni cuglienni, prima scampavari e roppi chjuvìari. …Cardilli, marivizzi, cucciarde, fravette, curivàttule, riviezzi a volare nel frangente in cui volassero e a non farlo nell’accidente inverso, …ché le sante bestiole alate voglia d’andar dietro i prodigi d’un sindaco in impasse non ne avevano affatto. I lampioni improvvisamente a germogliare luce, sfavillando in diretta e differita televisiva, in pieno giorno e senza spendere e spandere una lira (n. b.: perché ormai fuori corso). Cicale e grilli a non smetterla di frinire. Fabbriche come formicai a spuntar da sotto i cavoli con la rugiada del mattino, e a chiuder serranda in perpetuum, a sera tarda, prima del finale défilé. Debiti a palate, di soldi poche manciate e gran mangiate. Coriandoli, luccicori, sconfessioni. Festoni, bizzarrie, lucciconi. Tasso di disoccupazione inalterato. Adduvi zùmpavar’a crapa, zùmpavar’a cirivella! Nulla a caso. Tutto eviscerato e sviscerato nella cura manichea del particulare. Ogni buca dell’asfalto a farsi fosso, ogni fosso dirupo, ogni sporgenza dosso. All’ombra dei fossi e lungo le sponde dei torrenti non più alberi, arbusti o secche ma il supermarket d’ogni ben di Dio. Tre muti a riacquistar la vista. Un sordo a parlare per un’ora e 3/4, poi a zittirsi. Un cieco fallocefalo irreparabilmente afono, oracolo di delfi, tiresia, improbabile veggente, a giurar e spergiurare d’avvistare dischi volanti, asini alati, madonne lacrimare. Altri a guardare se potevano, sentire se volevano. Tutti senza principiare locuzioni, corrompere silenzi. Apparecchi ortodontoci e acustici, lenti ed occhiali, antipiretici, analgesici, sciroppi e pillole a diventare inutilmente indispensabili. Consumi stabili di cialis, levitra, viagra, sturalavandini e aiutini vari. Ingegneri, architetti, avvocati e professionisti già in lizza a godere a dismisura oppure mancu ppi ru cazzu! Appalti a raffica, sebbene a salve. L’Attico in abbandono a ritornare in gran spolvero. E cosi via...
«Gesùcristomio, eh cchi r’è? ...Ca mo’ raveri! ...N’atra vota? …Mo’ cci vo’! » La popolazione intera non ce la faceva più a reggere tutti i prodigi che si susseguivano senza interruzione alcuna, senza lasciare adito e alito pensante nel porre rimedio alla nuova calamità. Eh sì! ... Perché il troppo stroppia. Lo dice pure il proverbio.
Per ingraziarsi la nuova sorte, processione doveva essere, macchinava il sindaco e tutta la sua corte. Processione doveva essere, rimuginavano gli amministrati se non altro per porre un argine efficace a tutta quella congerie di prodigi fuori dall’ordinario. E così, all’improvviso o quasi, una sera sul finire d’agosto, una sera come mille altre, se non per il cielo stellato e una luna tonda da fare invidia pure al creatore, il corteo si snodò per vie e contrade. Fiaccole, accendini, cerini, in un tripudio di luci e friccicore. Trombette, trilli, strilla. Pifferi, ferracchjole, grandi ole. Qualcuno, con vezzo multiculturale, a canticchiare i Beatles di Obladì Obladà. Il sindaco tutto raggiante nella sua sfolgorante fascia tricolore, impettito e compunto col suo bel contorno, come un tacchino arrosto ormai stracotto, pronto per esser servito e riverito. Fra mani tese e gran pacche, qualcuno a passargli un accendino, una fiaccola, un cerino e ogni volta ghillu prontamente a sbarazzarsene, mente tutto tronfio e paonazzo scrutava di qua e di là, sopra e sotto, quasi a dimandare ad altrui certezze. «E cumpa Pinu, ca gh’è Gentile di nome e di fatto, nenti ha dittu?» ... «E ru viscuvu chi dicia?» ... «E a Berlusconi è statu rittu?»... «..Ma, su YouTube ‘un c’è ancora nenti?» E che festa tra gli assessori, fra frizzi, lazzi e schiamazzi! La stampa locale, libera ed intraprendente, a registrare la magnificenza fuori dal normale con orgoglio e puntiglio compiaciuto e/o compiacente. Nella ressa tutti ad avanzare lemme lemme che non si vedeva ad un passo. I mocciosi a spazientirsi, i vecchi a soffrire. Qualcuno a sorbirsi un gelato, altri a sdilinquirsi dietro un culo o un paio di tette. E dopo sorrisi e abbracci ognuno a curarsi del proprio deambulare. Persino il tizio intabarrato in un drappo d’un rosso stinto, sembrava non aver sbagliato appuntamento con la storia mentre s’accaniva imperterrito nel suo solito riff ormai in loop: «VIR-TU-O-SO. Vedi! Vedi, come suona rotondo. La parola ti si srotola in bocca. UN-CO-MU-NE- VIR-TU-O-SO.» Al che il sindaco, ormai annoiato per quella processione che sembrava non avesse principio e fine, l’azzittì di botto con parole ardite: «dotto’ ma chi cazzu fa ccu su strufinazzu?» Così proferendo gli porse celere l’ultimo cerino che gli capitò per mano. E fu così che con il sindaco in prima fila
e la sua giunta poco lontano,
si portò a spasso per il paese
la virtù perduta e la speranza vana.

Rosario Lombardo

4 commenti:

Anonimo ha detto...

L’obolo del preambolo. Simu sutta ‘stu cielu!

Le virtù teologali. Per grazia ricevuta.

Bisignanoinrete.com

Anonimo ha detto...

Il manifesto 21.08.2010

Il poeta ai tempi della posta elettronica

Poesia è malattia, diceva Kafka. Il poeta che manda in giro le sue poesie dunque manda in giro i suoi virus, le sue fratture, i suoi tessuti infiammati. Il poeta anela alla cura o almeno alla consolazione, ma dall'altra parte si pensa a difendersi dal contagio. È sempre stato così: il poeta è una creatura solitaria, un santo che non fa miracoli, un autista che parla. È sempre stato così, ma adesso il poeta si trova nel circo della comunicazione, sul trapezio della posta elettronica. Pensa di mostrare il suo numero, pensi di meritare attenzione perché sta lavorando senza rete, ma si rivolge a qualcuno che a sua volta sta pensando di mostrare ad altri il suo numero. Il poeta vuole inchiodare alla condizione di pubblico chi si sente in pista, chi lavora da anni a rifinire il suo ruolo di artista. Kafka diceva pure che l'impazienza è il male più grande e non c'è grande poesia senza una grande impazienza domata.
Il guaio è che l'impresa può riuscire sulla pagina più che nella vita. L'impazienza domata sta a quella indomabile come il non detto sta al detto. E la poesia è proprio quella lingua ariosa, leggera, ma capace di tenere a freno enormi flutti. È come se il lettore avvertisse che sotto la superficie lieta della pagina si agita il maremoto, il sisma del non detto. Forse per questo i poeti che si vogliono d'avanguardia spesso scrivono brutte poesie, perché pensano a far saltare questa carta velina dell'armonia, della semplicità, delle rime. Pensano che la poesia consista nell'esibire direttamente il terremoto, le rovine della lingua. Il risultato è la fuga. E se l'impresa avviene nel baraccone della comunicazione in cui ci troviamo adesso, ecco che il baraccone si svuota e ogni poeta, buono o cattivo che sia, resta solo nel suo circo a provare e riprovare numeri che non interessano a nessuno.
La posta elettronica corre sul filo e la metafora del trapezio è quanto mai calzante. La poesia dice sempre del tentativo di riparare un lutto e quando viene spedita fa un po' l'effetto di un afflitto che va in giro a chiedere le condoglianze. E questo movimento rende dubbio il lutto stesso, come ci trovassimo davanti a qualcuno che volesse venderci le azioni del suo dolore, azioni destinate inevitabilmente al ribasso in una società in cui tutti piangono e dove i morti senza lutto si confondono coi lutti senza morto. Il poeta è alla guida di un'impresa fallimentare perché ogni suo prodotto resta invenduto e la ragione dell'impresa consiste esattamente in questo. E anche se il prodotto risultasse smerciabile al poeta non può venirgli nulla, non ci sono rendite, bisogna subito cominciare da capo.
I critici letterari, gli altri poeti, gli amici, il mondo intero non possono essere di aiuto. Il poeta si ritrova sempre solo, sempre da un'altra parte. Il suo tempo corre sulle spine, attende senza pace il nulla della morte senza fine.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/ricerca-nel-manifesto/vedi/nocache/1/numero/20100821/pagina/15/pezzo/285218/?tx_manigiornale_pi1%5BshowStringa%5D=posta%2Belettronica&cHash=5e6ea6e1db

Anonimo ha detto...

Il manifesto 21.08.2010

Il poeta ai tempi della posta elettronica

Poesia è malattia, diceva Kafka. Il poeta che manda in giro le sue poesie dunque manda in giro i suoi virus, le sue fratture, i suoi tessuti infiammati. Il poeta anela alla cura o almeno alla consolazione, ma dall'altra parte si pensa a difendersi dal contagio. È sempre stato così: il poeta è una creatura solitaria, un santo che non fa miracoli, un autista che parla. È sempre stato così, ma adesso il poeta si trova nel circo della comunicazione, sul trapezio della posta elettronica. Pensa di mostrare il suo numero, pensi di meritare attenzione perché sta lavorando senza rete, ma si rivolge a qualcuno che a sua volta sta pensando di mostrare ad altri il suo numero. Il poeta vuole inchiodare alla condizione di pubblico chi si sente in pista, chi lavora da anni a rifinire il suo ruolo di artista. Kafka diceva pure che l'impazienza è il male più grande e non c'è grande poesia senza una grande impazienza domata.
Il guaio è che l'impresa può riuscire sulla pagina più che nella vita. L'impazienza domata sta a quella indomabile come il non detto sta al detto. E la poesia è proprio quella lingua ariosa, leggera, ma capace di tenere a freno enormi flutti. È come se il lettore avvertisse che sotto la superficie lieta della pagina si agita il maremoto, il sisma del non detto. Forse per questo i poeti che si vogliono d'avanguardia spesso scrivono brutte poesie, perché pensano a far saltare questa carta velina dell'armonia, della semplicità, delle rime. Pensano che la poesia consista nell'esibire direttamente il terremoto, le rovine della lingua. Il risultato è la fuga. E se l'impresa avviene nel baraccone della comunicazione in cui ci troviamo adesso, ecco che il baraccone si svuota e ogni poeta, buono o cattivo che sia, resta solo nel suo circo a provare e riprovare numeri che non interessano a nessuno.
La posta elettronica corre sul filo e la metafora del trapezio è quanto mai calzante. La poesia dice sempre del tentativo di riparare un lutto e quando viene spedita fa un po' l'effetto di un afflitto che va in giro a chiedere le condoglianze. E questo movimento rende dubbio il lutto stesso, come ci trovassimo davanti a qualcuno che volesse venderci le azioni del suo dolore, azioni destinate inevitabilmente al ribasso in una società in cui tutti piangono e dove i morti senza lutto si confondono coi lutti senza morto. Il poeta è alla guida di un'impresa fallimentare perché ogni suo prodotto resta invenduto e la ragione dell'impresa consiste esattamente in questo. E anche se il prodotto risultasse smerciabile al poeta non può venirgli nulla, non ci sono rendite, bisogna subito cominciare da capo.
I critici letterari, gli altri poeti, gli amici, il mondo intero non possono essere di aiuto. Il poeta si ritrova sempre solo, sempre da un'altra parte. Il suo tempo corre sulle spine, attende senza pace il nulla della morte senza fine.

http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/ricerca-nel-manifesto/vedi/nocache/1/numero/20100821/pagina/15/pezzo/285218/?tx_manigiornale_pi1%5BshowStringa%5D=posta%2Belettronica&cHash=5e6ea6e1db

Anonimo ha detto...

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