L'Eterno Rinnovamento del Volgare (Omar Calabrese)
Mi si chiede di scrivere un commento sul linguaggio usato da Andrea Pazienza nei suoi fumetti. Lo faccio con grande piacere, perché per me questo è anche un modo per ricordarlo. Un modo pacato, "normale", come è dovuto a una persona che ho conosciuto poco, ma in una atmosfera che suppongo importante per chiunque, nel bene e nei male: l'atmosfera universitaria.
Andrea Pazienza è infatti stato un mio studente, diversi anni fa, al DAMS di Bologna. Dico questo non per una funzione commemorativa, ma per entrare più direttamente nel merito dei suo "linguaggio". Intendo infatti occuparmi del "linguaggio" di Andrea non nel senso semiotico più largo, ma in quello proprio, da storico della lingua, quale io sono stato in origine. Non analizzerò, pertanto, i segni dello stile prodotto da Pazienza nel suo lavoro, ma soltanto la maniera di rappresentare l'italiano nelle sue storie e nelle sue vignette.
Insomma: come parlano i personaggi da lui messi in scena col disegno? Quali usi della lingua rivelano? Quale eventuale lingua nuova manifestano? E qui entra in ballo l'università. L'università, (e soprattutto quei corsi di laurea meno diffusi sul territorio nazionale come appunto il DAMS, o Sociologia, o Informatica, o Scienze Bancarie, o Lingue Orientali) costituisce uno strano universo. Il suo carattere, anzi, è dovuto precisamente al bisticcio fra "università = universalità" e "universo = mondo racchiuso da un confine".
L'università è infatti un territorio chiuso: ne fanno parte persone più o meno della stessa generazione, e più o meno della stessa cultura di base, e più o meno con gli stessi obiettivi sociali; e queste persone, i "giovani", condividono dentro l'università più o meno gli stessi orizzonti e un buon numero di esperienze. Dall'altro lato, l'università è invece un mondo incredibilmente aperto: soprattutto se un determinato corso di studi è raro, essa ospita giovani provenienti dai luoghi più diversi del Paese; e ciascuno si porta dietro un accento, un dialetto, tradizioni, saperi. locali diversissimi. In altre parole l'università diventa una microsocietà, in cui altissimo è lo scambio di esperienze comuni, ma anche un .laboratorio di integrazione di esperienze differenti.
Questa annotazione è importante sul piano linguistico. il suo corollario è infatti questo: che gli abitanti di quel mondo sono portati ad un uso "speciale" della lingua, ovvero a parlare producendo segnali di riconoscimento dell'appartenenza a un gruppo; ma, d'altro canto, il loro gergo è transitorio (coincide col periodo di permanenza nel gruppo e con quel gruppo particolare), ed è costituito dal preciso miscuglio delle componenti che vi partecipano in un dato momento. In termine tecnico, i linguaggi usati dai giovani, specialmente universitari, sono detti appunto "gerghi giovanili".
Si tratta di usi delle parole molto metaforici, ironici, spesso sotto forma di abbreviazioni delle parole normali, e a cui si aggiungono significati connotativi "segreti", perché identificabili solo se si appartiene all'ambiente. Un po' come le divise, insomma, ma non quelle militari, normative e regolari; piuttosto come le divise delle bande metropolitane, piene di segni rituali e di significati mitici. Uno dei modi più caratteristici di produrre "gergo" giovanile è il conio linguistico, che consiste nell'inventare una terminologia, ma prendendo le radici dalle parole già esistenti, e apponendovi prefissi e suffissi disparati, pur nel rispetto dell'impianto formale della lingua comune. In questo senso, molti gerghi giovanili sono delle vere e proprie "lingue creole", o "pidgin". Cioè delle ibridazioni lessicali che mettono insieme dei fossili linguistici provenienti dalle diverse origini dei membri della nuova comunità, ma mantenendo il rispetto formale della lingua naturale.
Da queste spiegazioni, si può adesso capire facilmente come la lingua dei giovani, soprattutto universitari, e soprattutto provenienti da aree lontane, sia una lingua parlata, che anzi sottolinea il proprio essere orale, immediata, semplificata, fortemente espressiva. Anche nei casi in cui il gruppo sia di estrazione sociale "colta", come evidentemente è comunque l'università, ebbene la lingua corrente, il gergo, è sempre molto popolare, ed è fatalmente orale ed effimera.
Fin dal Medio Evo si è dato il nome di "volgare" all'insieme di pratiche linguistiche come quelle che ho descritto. Il "volgare", insomma, non è il nascente italiano rispetto al latino d'obbligo per gli usi più alti della trasmissione del sapere. Il volgare è la lingua transitoria di una comunità rispetto a quella sancita dalla tradizione. Il volgare è il perenne stato nascente del rinnovamento linguistico.. Poi arriva qualcuno che dà un valore estetico o etico a questa lingua. E se ne serve per motivi espressivi artistici, o politici. Per manifestare insomma una scelta poetica, o una ricerca di identità, o un valore di freschezza e autenticità, o il senso della trasformazione delle cose.
Lo hanno fatto scrittori che poi sono entrati a far parte della Letteratura, come il già citato Dante Alighieri, o Rabelais, o il Ruzante, o Chaucer. E ogni tanto capita ad autori moderni, che certo non possiamo percepire come Dante, perché sarebbe ridicolo, ma che comunque cercano di compiere operazioni simili (dai punto di vista linguistico, s'intende), magari in momenti come il nostro che soffrono di troppa omogeneizzazione linguistica, a causa dei mass-media.
Mi pare che Andrea Pazienza sia uno dei questi pionieri, di questi innovatori. io lo metterei nella schiera degli sperimentatori poetici dell'ibridazione "volgare", come Pasolini con la sua ricerca del borgataro, come Dario Fo coi suo grammelot, come Diego Abatantuono col suo milanese meridional-metropolitano (di cui un giorno spero si percepirà il giusto valore), come Nino Frassica col suo siciliota (che non è affatto una storpiatura d'avanspettacolo, ma il vero pidgin tentato dai siciliani acculturati della TV). Pazienza, in effetti, fa parlare i suoi personaggi come se fossero pentole in ebollizione. Nelle frasi, quasi sempre prive di una sintassi regolare, come si fa nel parlato, riconosciamo pezzi di lingue differenti. C'è del dialetto pugliese, frammisto con gli slogan della pubblicità. Ci sono le metafore giovanili, relative ad esempio alla droga, alla musica, al sesso. C'è l'accento, se non talora il dialetto, bolognese. Ci sono le storpiature sarcastiche, eredità del 1977, che proprio a Bologna produsse nella musica, nella letteratura, in filosofia persino, il cosiddetto "stile demenziale" (Skiantos, Tondelli e Palandri, il gruppo del Gran Pavese, il giro del locale "Punkreas"). E ci sono tracce di Toscana, forse dovute a Montepulciano in cui andò ad abitare, e di Roma, per via dei tanti compagni di strada che a Roma vivevano. Cosi come non mancano pezzi di linguaggio politico: quelli nascenti negli anni del Movimento, ma ovviamente anche quelli del politichese ufficiale con i quali ci si "scontrava, e di cui due generazioni di autori di satira politica (Pazienza incluso) ci hanno abituato a scoprire il ridicolo involontario e le straordinarie possibilità espressive.
Una grande mistura, dunque, una grande creolizzazione. Di cui Pazienza scopre e illustra la vitalità poetica. Ne scopre infatti, in primo luogo, il profondo realismo, proprio laddove un certo gusto appunto demenziale veniva da tutti additato come surrealista. Ne scopre poi il ritmo, la violenza sonora, e la sua estrema disposizione ad accompagnarsi a qualcosa di molto popolare come la vignetta o il fumetto. Ne scopre infine l'altrettanto violenta sonorità, ai limiti della sgradevolezza e dei graffio. Ma del resto, e qui concludo, abbandonando la descrizione linguistica per quella stilistica, è proprio questo il tratto caratteristico di Pazienza: essere anti-istituzionale, non regolamentato, non inglobabile non solo o non tanto nei contenuti, ma prima di tutto nella stessa forma. Il linguaggio parlato, ibrido, giovanilista era una strada per giungere a tutto ciò, sfruttandone la natura inafferrabile, mutevole, grezza. Lo stato di costante trasformazione. La natura autenticamente Volgare.
Andrea Pazienza è infatti stato un mio studente, diversi anni fa, al DAMS di Bologna. Dico questo non per una funzione commemorativa, ma per entrare più direttamente nel merito dei suo "linguaggio". Intendo infatti occuparmi del "linguaggio" di Andrea non nel senso semiotico più largo, ma in quello proprio, da storico della lingua, quale io sono stato in origine. Non analizzerò, pertanto, i segni dello stile prodotto da Pazienza nel suo lavoro, ma soltanto la maniera di rappresentare l'italiano nelle sue storie e nelle sue vignette.
Insomma: come parlano i personaggi da lui messi in scena col disegno? Quali usi della lingua rivelano? Quale eventuale lingua nuova manifestano? E qui entra in ballo l'università. L'università, (e soprattutto quei corsi di laurea meno diffusi sul territorio nazionale come appunto il DAMS, o Sociologia, o Informatica, o Scienze Bancarie, o Lingue Orientali) costituisce uno strano universo. Il suo carattere, anzi, è dovuto precisamente al bisticcio fra "università = universalità" e "universo = mondo racchiuso da un confine".
L'università è infatti un territorio chiuso: ne fanno parte persone più o meno della stessa generazione, e più o meno della stessa cultura di base, e più o meno con gli stessi obiettivi sociali; e queste persone, i "giovani", condividono dentro l'università più o meno gli stessi orizzonti e un buon numero di esperienze. Dall'altro lato, l'università è invece un mondo incredibilmente aperto: soprattutto se un determinato corso di studi è raro, essa ospita giovani provenienti dai luoghi più diversi del Paese; e ciascuno si porta dietro un accento, un dialetto, tradizioni, saperi. locali diversissimi. In altre parole l'università diventa una microsocietà, in cui altissimo è lo scambio di esperienze comuni, ma anche un .laboratorio di integrazione di esperienze differenti.
Questa annotazione è importante sul piano linguistico. il suo corollario è infatti questo: che gli abitanti di quel mondo sono portati ad un uso "speciale" della lingua, ovvero a parlare producendo segnali di riconoscimento dell'appartenenza a un gruppo; ma, d'altro canto, il loro gergo è transitorio (coincide col periodo di permanenza nel gruppo e con quel gruppo particolare), ed è costituito dal preciso miscuglio delle componenti che vi partecipano in un dato momento. In termine tecnico, i linguaggi usati dai giovani, specialmente universitari, sono detti appunto "gerghi giovanili".
Si tratta di usi delle parole molto metaforici, ironici, spesso sotto forma di abbreviazioni delle parole normali, e a cui si aggiungono significati connotativi "segreti", perché identificabili solo se si appartiene all'ambiente. Un po' come le divise, insomma, ma non quelle militari, normative e regolari; piuttosto come le divise delle bande metropolitane, piene di segni rituali e di significati mitici. Uno dei modi più caratteristici di produrre "gergo" giovanile è il conio linguistico, che consiste nell'inventare una terminologia, ma prendendo le radici dalle parole già esistenti, e apponendovi prefissi e suffissi disparati, pur nel rispetto dell'impianto formale della lingua comune. In questo senso, molti gerghi giovanili sono delle vere e proprie "lingue creole", o "pidgin". Cioè delle ibridazioni lessicali che mettono insieme dei fossili linguistici provenienti dalle diverse origini dei membri della nuova comunità, ma mantenendo il rispetto formale della lingua naturale.
Da queste spiegazioni, si può adesso capire facilmente come la lingua dei giovani, soprattutto universitari, e soprattutto provenienti da aree lontane, sia una lingua parlata, che anzi sottolinea il proprio essere orale, immediata, semplificata, fortemente espressiva. Anche nei casi in cui il gruppo sia di estrazione sociale "colta", come evidentemente è comunque l'università, ebbene la lingua corrente, il gergo, è sempre molto popolare, ed è fatalmente orale ed effimera.
Fin dal Medio Evo si è dato il nome di "volgare" all'insieme di pratiche linguistiche come quelle che ho descritto. Il "volgare", insomma, non è il nascente italiano rispetto al latino d'obbligo per gli usi più alti della trasmissione del sapere. Il volgare è la lingua transitoria di una comunità rispetto a quella sancita dalla tradizione. Il volgare è il perenne stato nascente del rinnovamento linguistico.. Poi arriva qualcuno che dà un valore estetico o etico a questa lingua. E se ne serve per motivi espressivi artistici, o politici. Per manifestare insomma una scelta poetica, o una ricerca di identità, o un valore di freschezza e autenticità, o il senso della trasformazione delle cose.
Lo hanno fatto scrittori che poi sono entrati a far parte della Letteratura, come il già citato Dante Alighieri, o Rabelais, o il Ruzante, o Chaucer. E ogni tanto capita ad autori moderni, che certo non possiamo percepire come Dante, perché sarebbe ridicolo, ma che comunque cercano di compiere operazioni simili (dai punto di vista linguistico, s'intende), magari in momenti come il nostro che soffrono di troppa omogeneizzazione linguistica, a causa dei mass-media.
Mi pare che Andrea Pazienza sia uno dei questi pionieri, di questi innovatori. io lo metterei nella schiera degli sperimentatori poetici dell'ibridazione "volgare", come Pasolini con la sua ricerca del borgataro, come Dario Fo coi suo grammelot, come Diego Abatantuono col suo milanese meridional-metropolitano (di cui un giorno spero si percepirà il giusto valore), come Nino Frassica col suo siciliota (che non è affatto una storpiatura d'avanspettacolo, ma il vero pidgin tentato dai siciliani acculturati della TV). Pazienza, in effetti, fa parlare i suoi personaggi come se fossero pentole in ebollizione. Nelle frasi, quasi sempre prive di una sintassi regolare, come si fa nel parlato, riconosciamo pezzi di lingue differenti. C'è del dialetto pugliese, frammisto con gli slogan della pubblicità. Ci sono le metafore giovanili, relative ad esempio alla droga, alla musica, al sesso. C'è l'accento, se non talora il dialetto, bolognese. Ci sono le storpiature sarcastiche, eredità del 1977, che proprio a Bologna produsse nella musica, nella letteratura, in filosofia persino, il cosiddetto "stile demenziale" (Skiantos, Tondelli e Palandri, il gruppo del Gran Pavese, il giro del locale "Punkreas"). E ci sono tracce di Toscana, forse dovute a Montepulciano in cui andò ad abitare, e di Roma, per via dei tanti compagni di strada che a Roma vivevano. Cosi come non mancano pezzi di linguaggio politico: quelli nascenti negli anni del Movimento, ma ovviamente anche quelli del politichese ufficiale con i quali ci si "scontrava, e di cui due generazioni di autori di satira politica (Pazienza incluso) ci hanno abituato a scoprire il ridicolo involontario e le straordinarie possibilità espressive.
Una grande mistura, dunque, una grande creolizzazione. Di cui Pazienza scopre e illustra la vitalità poetica. Ne scopre infatti, in primo luogo, il profondo realismo, proprio laddove un certo gusto appunto demenziale veniva da tutti additato come surrealista. Ne scopre poi il ritmo, la violenza sonora, e la sua estrema disposizione ad accompagnarsi a qualcosa di molto popolare come la vignetta o il fumetto. Ne scopre infine l'altrettanto violenta sonorità, ai limiti della sgradevolezza e dei graffio. Ma del resto, e qui concludo, abbandonando la descrizione linguistica per quella stilistica, è proprio questo il tratto caratteristico di Pazienza: essere anti-istituzionale, non regolamentato, non inglobabile non solo o non tanto nei contenuti, ma prima di tutto nella stessa forma. Il linguaggio parlato, ibrido, giovanilista era una strada per giungere a tutto ciò, sfruttandone la natura inafferrabile, mutevole, grezza. Lo stato di costante trasformazione. La natura autenticamente Volgare.
1 commento:
Posta un commento