10 marzo 2008

ANTONIO TABUCCHI: Il padrone della tabaccheria



Nella lezione inaugurale al Collège de France del 7 gennaio 1977, Roland Barthes afferma: “La letteratura lavora negli interstizi della scienza: è sempre in ritardo o in anticipo su di essa, simile alla pietra di Bologna che irradia durante la notte ciò che ha immagazzinato durante il giorno e grazie a questa luce indiretta illumina il giorno a venire. La scienza è rozza, la vita è sottile, ed è per correggere questa distanza che la letteratura ci importa”. La vita è sottile, è vero, ma aggiungerei che è anche insufficiente: “La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” (Fernando Pessoa).La letteratura offre la possibilità di un di più rispetto a ciò che la natura ci concede. E in questo di più è inclusa l’alterità, il piccolo miracolo che ci è concesso nel viaggio della nostra breve esistenza: uscire da noi stessi e diventare "altri". Dell’eteronimia di Fernando Pessoa si è ormai impossessata quella cultura middlebrow promossa da certi media che prediligono lo scalpore e il sensazionale, trattandola alla stregua di un caso clinico, direi, di un “effetto speciale”. E divulgando il poeta come un fenomeno da baraccone, una sorta di “deviante”. Naturalmente la poetica di Pessoa, pur nella sua radicale impostazione, è intrinseca alla letteratura di sempre. Quale “commedia umana”, in versione moderna e realizzata in poesia è la stessa di Shakespeare, Cervantes, Balzac. Cervantes disse di se stesso di essere simultaneamente Don Chisciotte e Sancho Panza. Sappiamo che Shakespeare non fu principe di nessuna Danimarca. Flaubert sosteneva che Madame Bovary era lui, ma niente ci impedisce di pensarlo come la vecchia domestica Félicité di un Cuore semplice. Baudelaire ha scritto: “Come delle anime erranti che cercano un corpo, egli può entrare, quando più lo vuole, in ogni personaggio”.La letteratura non è stanziale, è nomade. Non solo perché ci fa viaggiare attraverso il mondo ma soprattutto perché ci fa attraversare l’animo umano. Inoltre è correttiva, perché è l’unica possibilità che ci è concessa di modificare gli avvenimenti e di correggere la Storia più matrigna. Perché è il territorio del possibile, della libertà assoluta. Rinchiuso nel forte di Taureau, presso Morlaix, Auguste Blanqui, dopo la disfatta della Comune, prende la sua rivincita sugli avvenimenti che lo hanno schiacciato. Partendo dalle teorie sull’universo di Laplace, e dunque con un rigore assolutamente scientifico, seppur applicandolo a una pura ipotesi, egli riprende l’idea dell’infinità dell’Universo, del Tempo e dello Spazio, iscrivendo la sua ipotesi in un’infinità di mondi possibili, con un’infinità di storie possibili, ciascuna in fondo uguale a se stessa ma con varianti di esiti diversi.Così, per esempio, in un luogo indeterminato del tempo e dello spazio, anywhere, gli stessi comunardi avranno vinto la battaglia e affermato i loro ideali, e lo stesso Blanqui, identico a se stesso ma in una delle sue possibili varianti, invece di provare la profonda amarezza della disfatta, vedrà il trionfo dei suoi ideali. L’Eternité par les astres, libro singolare e straordinario di un non-letterato, è in realtà grande letteratura e senza dubbio uno dei libri più rivoluzionari della fine dell’Ottocento. Senza il quale, aggiungo, un grande scrittore come Jorge Louis Borges forse non sarebbe mai esistito.Perché si scrive? La domanda, inevitabile, ritorna sempre, anche se si cerca di evitarla, simile a certe pie signore dedite alla loro catechesi che tutte le domeniche implacabilmente vengono a suonare alla porta. Ma anche la risposta più radicale come quella di Beckett (“perché non sono buono a nient’altro”) è evidentemente insufficiente e ispirata da una modestia che con l’autoderisione non risolve il problema. Conosco decine di persone che non sono “buone a nient’altro” e che in vita loro non hanno mai scritto una riga. Del resto le risposte possibili sono tutte plausibili senza che nessuna davvero lo sia. Si scrive perché si ha paura della morte? E’ possibile. O non si scrive piuttosto perché si ha paura di vivere? Anche questo è possibile. Si scrive perché si ha nostalgia dell’infanzia? Perché il tempo è passato troppo in fretta?Perché il tempo sta passando troppo in fretta e vorremmo fermarlo? Si scrive per rimpianto, perché avremmo voluto fare una certa cosa e non l’abbiamo fatta? Si scrive per rimorso, perché non avremmo dovuto fare quella certa cosa e invece l’abbiamo fatta? Si scrive perché si è qui ma si vorrebbe essere là? Si scrive perché si è andati là ma dopotutto era meglio se restavamo qui? Si scrive perché sarebbe davvero bello poter essere qui dove siamo arrivati e allo stesso tempo essere anche là dove ci trovavamo prima? Si scrive perché “la vita è un ospedale dove ogni malato vorrebbe cambiare letto. L’uno preferirebbe soffrire accanto alla stufa, e l’altro è convinto che guarirebbe vicino alla finestra” (Baudelaire)?O non si scriverà piuttosto per gioco? Ma non il puro gioco, come pretendeva l’avanguardia dell’avantieri in Italia e anche altrove, cioè la letteratura intesa come parole crociate che è tanto utile per ammazzare il tempo. Il gioco naturalmente c’entra, ma è un gioco che non ha niente a che vedere con gli scherzi in cui eccellono certi giocolieri, i prestidigitatori della domenica che sanno come dilettare lo spettabile pubblico. E’ semmai un gioco che somiglia a quello dei bambini. Di una terribile serietà. Perché quando un bambino gioca mette tutto in gioco. Prende una pietruzza e seduto sul gradino di casa, mentre scende la sera, reggendo la pietruzza sul palmo della mano dice che quella pietruzza è il mondo.Sottolineo: non lo pensa soltanto, ma lo dice, perché è solo quando lo dice che il sortilegio si avvera e la pietruzza diventa il mondo: è il patto assoluto. Il bambino sa che se quella pietruzza cadesse il mondo precipiterebbe, l’universo in cui il mondo gira sarebbe perturbato, gli astri impazzirebbero e avanzerebbe il caos. Egli sa che finché durerà il suo gioco avrà nelle mani le sorti del mondo. Fino al momento in cui il padre appare nel riquadro della porta sorridendo, la cena è in tavola, si sta facendo freddo, domani è giorno di scuola, e ora bisogna rientrare. Il Padrone della Tabaccheria ha sorriso. Senza rendermene conto sono arrivato al punto culminante di una sublime poesia dell’eteronimo di Fernando Pessoa Alvaro de Campos, Tabaccheria, nella quale c’è un’analogia con la risibile e angosciosa dialettica baudelairiana fra la stufa e la finestra. Al posto della stufa c’è una sedia in fondo alla stanza dove ogni tanto il poeta va a sedersi per riflettere, assaporando certe intuizioni (le sue epifanie) che gli sono suscitate guardando dalla finestra della sua mansarda la bottega di tabacchi sull’altro lato della strada, dove la gente entra ed esce, e dove c’è vita, come nella vita.Ma ecco che: “Un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?), / E la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me. / Mi raddrizzo energico, convinto, umano, / E mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario. [...] / Ma un uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilandosi in tasca il resto?). / Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica. / (Il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla soglia). / Come per un istinto divino Esteves si è girato e mi ha visto. / Mi ha fatto un cenno di saluto, io gli ho gridato “Ciao, Esteves!”, e l’universo / Mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso”.Ma chi è il Padrone della Tabaccheria? Questo è il problema. E poi perché sorride, forse in maniera ironica o addirittura con bonaria sufficienza, quasi a indicare al poeta che è vano fare domande alla vita e al mondo, è vano chiedere alla sua Tabaccheria di rivelarci il mistero del tutto? In quel sorriso c’è qualcosa di leonardesco, mi spingerei a dire, come se si trattasse dell’imperscrutabilità delle cose, del limite della conoscenza umana che il genio di Leonardo ha raffigurato in forma di sorriso sulle labbra della Gioconda e di San Giovanni, un qualcosa che Ortega y Gasset definì “ineffabile”. Ti è stato concesso il privilegio di conoscere fino a un certo punto, non puoi andare oltre, sembra dire quel sorriso. Come il padrone della Tabaccheria, il padrone del Circo, salutando il pubblico, sorride. Lo spettacolo è finito. La letteratura si ferma qui, comincia il mistero della vita. E la letteratura si rimette subito al lavoro.


TRATTO DA "LA REPUBBLICA DEL 31/01/07"

10 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto bello ed interessante l'articolo di Antonio Tabucchi! L'avevo già letto; ed anche nella sua traduzione francese apparsa con altri suoi articoli su "Le Monde". E' un autore che mi piace molto. Una volta, anni fa, in una famosa emissione letteraria, sempre in Francia, fu intervistato da Bernard Pivot (conduce programmi famosi, sulla letteratura e l'arte). Fu divertentissimo (ebbe il privilegio di essere intervistato da solo, come un Grande......), mentre parlava di letteratura (e della politica italiana...), facendo com'è sua abitudine... qualche riferimento a Fernando Pessoa (una "miniera piena di pepite d'oro" che leggo sempre molto volentieri: libri ed articoli: gli uni più interessanti degli altri: non so se, ad esempio, avete letto quanto scrissi tra gli anni venti e trenta... sulle caratteristiche del provincialismo portoghese o più in generale: dicendo, tra l'altro, che gli intellettuali provinciali fanno prova di mancanza d'ironia, o di un entusiasmo eccessivo per il Nuovo, etc.; o ancora, il suo famoso "O banqueiro anarquista", Il banchiere anarchico - uno dei suoi "esercizi di deduzione" - apparso nella rivista "Contemporarea nel 1922)... Ehm, dove eravamo restati? Ah, facendo riferimento a Fernando Pessoa, Tabucchi non la smetteva di grattucchiarsi il viso, le orecchie, il naso, più altre contorsioni sulla poltrona dov'era "seduto"! Uno spasso assoluto mentre diceva mille cose interessanti...
Ritornando all'articolo: molto bello e profondo quanto scrive sulle motivazioni della scrittura, sul perché si scrive...
In breve, trovo ottima l'idea di proporre questo genere di articoli sul Blog dei Pirati & Corsari... che navigano a Gonfievele contro corrente...
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Ora, siccome il mio amico Ninnillo mi aveva fatto avere (ve lo avevo già detto mi sembra) diversi sui scrittarelli come li definisce (dicendomi che non si prende né per Pessoa, né per Tabucchi, né per o per... etc.; che si diverte, semplicemente... - spesso, se non sempre...), sono riuscito ad ottenere la sua approvazione (a fatto un po' finta di esitare ma in fondo gli fa piacere): posso renderli pubblici (a condizione che non siano in intero!). Allora, vi propongo questo suo strano scritto (senza né testa né coda di pesce!!!???). Certo, è un po' lunghetto... Ma, lo si puo' leggere anche poco poco poco... alla volta; volendolo... O, op! saltarlo(!).
J.xck.
P.S. Se ci sono errori questi sono dovuti "a me" e non all'autore (mi aveva chiesto di correggere!)
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- Stranisogni

Veramente, do poca retta ai sogni. Non ci credo. Se sogno qualcosa per me non significa granché. Certo, sogno e come, e spesso (incubi o bei sogni, dipende). Se non li dimentico (mi accade assai regolarmente, svegliandomi) non ne traggo nessun insegnamento, alcuna preveggenza. Anche quando potrebbe sembrare che vogliano avvertirmi di un pericolo.
Qualcosa l’ho letta a proposito di questi strani fenomeni. Se ne sono dette e scritte tante... Freud ad esempio. L’ho letto abbastanza ma non mi ha mai convinto. Anche se diceva certe cose interessanti, le sue interpretazioni le ho sempre considerate tutt’altro che obiettive. Tutte queste “dimostrazioni” basate su teorie tutt’altro che scientifiche, le considero fondamentalmente errate (l’inconscio ad esempio).
So che ci sono Specialisti che pretendono di poter interpretare i sogni. Di questi non ne mancano. Per non farla lunga, piuttosto che continuare con cose che ognuno di noi conosce (più o meno s’intende), sicuro che ciờ che leggerete qui sotto non si presterà ad alcun malinteso, vorrei farvi approfittare di quanto mi è capitato di sognare stanotte. Qualche ora fa. Sogni freschi per così dire. Nitidi, tanto che ne ricordo tutti i dettagli o quasi. Chissà, magari vi sarà successo di sognare cose simili. Allora, mi dico adesso: questi miei “viaggi” notturni potrebbero servirvi. Per un eventuale riscontro d’idee. Voglio dire, di confronto tra i nostri sogni. (Se qualcuno vi trovasse significati bizzarri, palesi o reconditi, gliene lascio l’intera responsabilità. Questione di libertà personale.)
Ho sognato varie cose. Incomincio con la scena più lunga. Pare che da un punto di vista scientifico ci siano fasi notturne diverse, più o meno attive. (Persone dotate, lo ripeto, potranno interpretare come gli garba quanto sto per raccontarvi con sincerità. Giusto per dirvi che non sono frottole.)
Mi trovavo in una cucina. Spaziosa. Sul tavolo c’era un vaso di cristallo (o di vetro?) con dentro un bel mazzo di rose. Grandi rose, bianche e rosse. Molto belle, come appena tagliate. Ricordo, perfettamente, il grande frigorifero. Stile Anni ’30 (già esistevano, i frigoriferi.). Ma, forse confondo con gli anni Sessanta. O con uno di questi post frigoriferi che imitano gli stili passati. Non sono esperto in frigoriferi, e meno che mai nei loro stili. Poco importa. Un grande frigorifero bianco con una grossa maniglia. Andavo ad aprirlo per bere qualcosa di fresco. Una spremuta di arance, 100% di frutta. (Il gusto medicinale di quello a base di concentrato non mi va.) Sapevo che ce n’era e mi piace molto. Succo di arance sanguigne di Sicilia, il mio preferito.
Quel giorno faceva molto caldo. Ritornavo da una lunga passeggiata, accompagnato dal canto familiare delle cicale. A conferma della netta impressione d’essere in Provenza. Forse, nella campagna di Nimes. Le finestre erano color blu provenzale. Come quello delle barche, sulla costa.
Apro la porta e mi trovo davanti uno spettacolo bizzarro. Sicuramente inconsueto. Il frigorifero era pieno di polli. Decine di polli. Spennati e stipati stretti gli uni sugli altri, dalla base in su. Grossi polli, d’ottima qualità. Il colorito roseo mostrava che avevano beccato all’aria aperta. Logica deduzione che facevo nel sogno. Non si trattava di pollame industriale. E questo, malgrado la sorpresa, non mi dispiaceva. Ne ero contento. Come quando al mercato uno direbbe: “Che buoni questi polli!”
Del succo di arance, nessuna traccia. Le due scatole, con tutto il resto: uova, legumi, prosciutto cotto e crudo, qualche birra, il formaggio... erano spariti. Mi domandavo, sempre logicamente: “Ma chi li ha tolti per metterci tutti questi polli?” Senza risposta. Non sapevo, né so, a chi appartenesse la casa.
Perché c’erano tutti questi polli nel frigorifero? Restavo là davanti, a grattarmi la testa. Un po’ preoccupato? (Questo sentimento è difficile da precisare, anche da svegli.) Sorpreso, e deluso (a causa della sete, ne sono sicuro), ho chiuso la porta. L’ho aperta e chiusa tre o quattro volte. I polli c’erano sempre. Se avessi continuato avrei avuto un incubo? Possibile.
Vado ad aprire gli armadietti della cucina. Sui lati e dal basso verso l’alto rispetto ai rubinetti d’oro ed alle vaschette d’argento. Altra incredibile sorpresa. Mi aspettavo qualche nuova bizzarria, certo, ma come ho visto i pesci in salamoia dentro la dozzina di bacinelle quadrate, non sapevo più cosa pensare. Questi pesci erano vivi. Nuotavano, là dentro. Ce n’erano perfino nelle due vaschette e nuotavano come fossero nel Mediterraneo. Però, erano in salamoia. Ne sono sicuro. Centinaia di pesci e pesciolini: acciughe, sardine, anguille, e via dicendo. Le bacinelle di plastica, prive di coperchi, erano sistemate negli armadietti della cucina. Ce n’erano di diversi colori. Ricordo che mi sono chiesto: “Cosa significano questi pesci messi così? Il pesce mi piace, in generale. Ma ne mangio poco. In particolare, mi piacciono le sardine arrostite.”
Restavo là, sorpreso. Uno sbalordimento addormentato, certo, ma pur sempre di autentico sbalordimento si trattava. Ingenuamente, mi chiedevo e richiedevo: “Ma che ci fanno, qui, dei pesci che nuotano nella salamoia? Ed i polli nel frigorifero? Chi ce li ha messi? E perché?” Mi sembra che mi sono pure chiesto se c’erano entrati da soli.
Purtroppo, non ho a portata di mano nessun Manuale dei sogni. Altrimenti, stamattina, avrei subito cercato le parole “pesce” e “pollo”. Per vedere un po’. Provvederò. Per adesso, m’accontento dei pochi pensieri che mi vengono in testa. Che sto annotando a mente sveglia. Pesci... Polli... Resto senza risposte convincenti. Richiudo i tiretti e le porte degli armadietti. Dopo aver controllato un’ultima volta nel frigorifero. I polli, c’erano sempre.
Così s’è concluso il primo dei miei sogni di stanotte. Se mi torna in mente una di queste notti, cercherò di approfittarne: farò un’inchiesta. Osserverò meglio la scena.
Queste immagini non m’hanno procurato nessun panico. Non era un incubo. (Lo sarebbe diventato proseguendo? Quando dormo, quasi tutto diventa possibile. Finanche, di credermi sveglio.)
In attesa della buona soluzione (se mai ce ne fosse), passo subito al sogno minore, durato metà del primo. Se l’ordine cronologico è realmente questo. Come mi pare adesso che sono sveglio.
Poco tempo dopo - non saprei stabilirlo con esattezza - ho ricominciato a sognare, sempre assai nitidamente. Un sogno privo di pesci e polli. Nemmeno l’ombra, di questi. Mi trovavo su una spiaggia. Sotto un bel sole. Mare calmo, d’un azzurro meraviglioso, da bella cartolina con la Grotta Azzurra che m’ha spedito un amico. Ero disteso sulla sabbia calda. Al riparo d’un ombrellone colorato come un arcobaleno.
Sto leggendo La Repubblica. Giornale che compro ogni tanto. Capito su due pagine dove c’è, in grande, la pubblicità per un telefonino... (Si trattava di telefonini? Nel sogno non è chiaro; forse, era secondario.) Il telefonino... è infilato dentro il costume da bagno, ben teso sulla natica d’una bellissima ragazza (lo presumo, la pubblicità ne mostra solamente la parte bassa, leggermente rivolta verso il lettore). Forma una bossa, a forma di telefonino.
Disteso a pancia in giù, appoggiato sui gomiti, guardo questa pubblicità elettronica. Un po’ enigmatica. Ad un tratto, come per magia, il giornale sparisce. Non c’è più. Mi trovo davanti non una, ma tre belle ragazze. Senza il misterioso apparecchietto pubblicizzato. (Non somigliano a nessuna delle amiche che conosco.)
Devo riconoscere (volentieri, in fondo), che le donne mi piacciono. Come alla maggior parte degli uomini. Ma là, nel sogno, sotto l’ombrellone, le contemplavo senza pensieri particolari. Vedete cosa voglio dire. Ne apprezzavo le forme. Erano nude. Le stavo osservando (filosoficamente, dunque) quando, all’improvviso, sui corpi di queste tre ragazze cominciano a sfilare parole stampate. Come su uno schermo. Più o meno. (E qui, il legame con La Repubblica mi sembra evidente.)
Gli articoli di questo giornale sfilavano. Sulla politica, lo sport, ed altri per me più interessanti. Quelli culturali. Ricordo, benissimo, d’averne letto uno di Pietro Citati ed un altro di Alberto Arbasino. Autori che leggo volentieri. Gli articoli sfilavano con movimento che pareva aiutare gli occhi: da sinistra a destra, scendendo mano mano. Cominciavano coi titoli, sui capelli (biondi, bruni, e rossi): come se le modelle fossero tre colonne su uno schermo che riproduce un foglio di giornale. Poi, scendevano. Collo, spalle... mentre le signorine giravano su se stesse. Ombelico, fianchi... E giù, lungo le gambe affusolate. Fino ai piedi.
Non pensavo a nulla di particolare, dicevo. Certo, gli articoli, presentati in questo modo originale, lo erano e come, un po’ eccitanti. Lo riconosco adesso che sono sveglio. Io, però, m’interessavo al CONTENUTO degli articoli. Di Arbasino, uno scritto di qualche anno fa (che avevo già letto, dunque), sul risotto italiano (vario, barocco) rispetto a quello giapponese (minimalista, zen). Molto interessante.
Stamattina, scrivendo di getto questi appunti, non riesco a capire se le ragazze significassero qualcosa in più, di diverso, riguardo ai contenuti (culturali, politici, sportivi) del giornale. Quale legame con la linea editoriale del quotidiano? Se su una spiaggia qualsiasi vedessi questa scena, penserei, realmente, ad un nuovo modo di far pubblicità. O a qualcosa del genere. (Sorvolo su queste possibilità che potrebbero già esistere senza che me ne sia accorto. Guardo poco la televisione, ed al cinema ci vado raramente.)
Non fu un cattivo sogno. Anzi, mi sembra che l’ho apprezzato. Certo, svegliandomi, ho avuto come un leggero disappunto. Avrei voluto che succedesse qualcosa? (oltre la lettura, intendo). Possibilità che non devo scartare. Quando si dorme (me lo ripeto da quando mi sono svegliato) i livelli di comprensione sono assai illogici. Vanno un po’ per i fatti loro?
Riassumo: stanotte ho sognato tre belle ragazze: una bruna, una rossa e una bionda, che servivano, letteralmente, da pagine di giornale. Questo è certo. Così come i pesci nelle bacinelle ed i polli nel frigorifero. Mi sottolineo questa domanda: Ci sono, o no, relazioni tra i due sogni, fra le ragazze e gli animali?
Il mare? Forse. Ma non ci sono andato da diversi mesi. E poi, pure quando non ci sono stato per quasi un anno, questi effetti non si sono mai prodotti. La sete o la fame? La sete è da escludersi. Siamo in primavera e Parigi non è surriscaldata come durante le recenti estati. Bevo normalmente. Acqua e qualche bicchiere di succo di arance siciliane. A volte, un po’ di birra o di vino. O di champagne. Per la fame, non ne soffro. Non ho fatto indigestioni negli ultimi anni. Tutto va bene pure da questo lato, mi pare.
Si tratta d’una gran voglia di stare con qualche bella ragazza? Lo escludo, almeno di giorno. Sono sposato. E fedele. Il sogno, inoltre, con le forme e tutto il resto, non era estremamente eccitante. (Pure questo, lo sottolineo. A scanso d’equivoci.)
Quando avrò più tempo, mi metterờ alla ricerca d’un buon libro (tipo ABC dei sogni) che possa fornirmi (lo spero) risposte perlomeno un po’ soddisfacenti. Per il momento, non ne intravedo. Giro a vuoto. Conseguenza di queste prime riflessioni: i miei sogni non sembrano significare granché. Nulla di veramente preciso.
Sto appuntandomi questi ultimi sogni ed in mente me ne ritorna qualche altro, più vecchio. Il fatto è che se li dimentico facilmente, ce ne sono alcuni, invece, che sembrano più resistenti; che continuano a galleggiare, come meglio possono, nella memoria. Pure distanti nel tempo. C’è anche qualche incubo. Forse perché sono di buon umore, stamattina, ricordo soprattutto quelli piacevoli. E qui concludo i sogni di qualche ora fa (notte del 30 al I° Maggio, Festa dei lavoratori).
Dimenticavo. Ho detto che le tre belle ragazze scaturite dalle pagine del giornale non avevano granché di “estremamente eccitante”... Ciò nonostante vi chiederete (lo immagino) se dopo aver letto gli articoli apparsi sui tre corpi nudi sia successo altro.
Vi rispondo subito. Smesso di leggere il giornale, cioè le ragazze, queste belle signorine, benché m’avessero sorriso in un modo che mi sembrò assai malizioso (ma forse m’illudevo sognando), sono scomparse. Io, allora, mentre continuavo a pensare alla scena appena vista, osservai tre onde sulla calma superficie del mare. Vidi tre belle creste schiumose allontanarsi verso il largo.
Quest’estate, forse potrò avere una risposta sul significato forse nascosto di tutte queste visioni. Andrò al mare da sveglio, ben cosciente d’andarci. (L’Incosciente? Beh, non penso d’averlo. Non credo che esista. Almeno per quanto mi riguarda. Ne ho lette, riflettendoci. Ma, non sono convinto da queste teorie.)
Vado al mare, su una spiaggia ben soleggiata. Porto con me lo stesso numero del giornale (La Repubblica del 18 aprile 2006). Quello con la famosa pubblicità. Me la metto sotto gli occhi ed aspetto. Per vedere un po’ cosa succede. Anzi, meglio se intanto mi addormento sotto l’ombrellone...
Che caldo! Sono all’ombra e muoio dal caldo. Berrei una spremuta di arance bella fresca.. Sto leggendo il giornale. Le solite. I soliti politici. Tre paragrafi letti e già mi annoio mortalmente. Si ripetono, si ripetono.... I giornalisti li prendono sul serio. Chissà perché. Pure quando tutti questi professionisti dello sbadiglio-politico sbadigliano tra loro, i giornalisti lo riportano, lo riportano... Meno male, li compro raramente, i giornali. E gli articoli politici, spesso noiosissimi, li salto volentieri.
Ecco le pagine con la pubblicità del telefonino... Doppia pagina. Per attirare doppiamente lo sguardo. Per costringermi a ben individuarlo. È là, sotto il costume, sulla bella natica di carta. Cosa succede? Dov’è La Repubblica che sto leggendo? Le ragazze avanzano verso di me. La rossa, la bionda e la bruna. Nude come Eva prima della mela. Mi stropiccio gli occhi. Sì, non una ma tre. Penso: “Ecco Eva & Eva & Eva. Una più bella dell’altra. Quale preferisco? Non lo so.”
La Natura... Com’è misteriosa! Come fa a crearne con queste forme da sfilata di moda per modelle sempre dimagrite? Su quale base? (Per il momento, la metto da parte, la metafisica... Queste sono cose complicate. Non le posso risolvere qui, adesso, su una spiaggia piena di gente e di sole.)
Sono sicuro che ho gli occhi spalancati. Ne guardo una. E poi le altre. E ricomincio. S’avvicinano... Siedono accanto a me. Mi sorridono, sotto l’ombrellone-arcobaleno. Gli articoli li ho completamente dimenticati. Mi sembra che pure loro tre, hanno caldo. La bruna comincia a mettermi la crema solare sui piedi. La bionda sulle braccia. La rossa, sulle spalle. Mi sento bene. Tranquillo. Immaginatevi sotto l’ombrellone. Con Eva e Eva e Eva...
Forse, ho una delle risposte che cercavo. Il sogno, interrotto la mattina del Primo Maggio 2006, se fosse continuato avrebbe avuto esiti più’ eccitanti. Eva moltiplicata per tre. Prima della mela...
Mi domandano in coro: “Ce l’offri un bicchiere di succo di arance?” Contento di rendermi utile, rispondo: “Volentieri!”
Apro la porta del frigorifero...

- Altrisogni

Dicevo, all’inizio che do poca retta ai sogni. Che non ci credo. Ma poi, con apparente contraddizione, accennavo ad un Manuale dei sogni, da consultare. Ad un ABC dei sogni, se vi ricordate. Come si spiega, me lo sto domandando solamente adesso. Se non ci credo, quale vantaggio potrei trarne da questi manuali? Poiché, ne sono convinto, l’interesse non andrebbe al di là della pura curiosità. Ricordate i pesci nei tiretti ed i polli nel frigorifero? Ebbene, anche controllando nell’ABC, non penso proprio che ne avrei benefici. Giacché (appunto), queste spiegazioni credo che siano, soprattutto, fandonie. O qualcosa del genere. Ma, sorvoliamo. Resta, che mi sono contraddetto. A causa, forse, della fretta. Annotando in fretta, e subito dopo essermi svegliato, dovevo avere le idee ancora relativamente confuse. Un po’ come quando si sta per uscire da un dormiveglia agitato.
Comunque, ciò che veramente conta, è che, oramai, ho preso l’abitudine d’annotare i miei sogni. Un’ottima decisione, ne sono sicuro. Convintissimo. Prima, ne dimenticavo tanti. La maggior parte. Anche quando non lo meritavano. Un bel sogno non andrebbe mai dimenticato. Avevo esitato, come quando non si è completamente sicuri di quello che si deve o si può fare. Per anni, ho sognato invano, praticamente. Perché è proprio vero che una volta dimenticati non possono servire a niente. Se l’avessi annotati, scrupolosamente intendo, da sveglio potrei riviverli come si deve. Come e quando mi piace. Tranquillamente. (Riflettevo in questi termini, quando mi sono deciso a prendere penna e carta.)
Certo, tra quelli che non ho mai annotato, ce ne sono che ricordo almeno in parte. Ne ricordo le immagini più vive. Pure tra quelli lontani nel tempo. Ce n’è uno che ho fatto spesso. Ma con alcune varianti. Mentre la caparbia fissità delle immagini più importanti si è ripetuta tale e quale. Sarà stata una coincidenza, poco tempo fa m’è ritornato. (Sognando, mi sembra che le coincidenze sono più numerose che da svegli.) Questa volta, però, anche se con grande ritardo, lo annoto come si deve.
Avevo ricominciato a volare. (A proposito di voli sognati, avevo sentito dire, non ricordo da chi o se l’ho letto, che volare sarebbe il sogno più comune. Se è vero, questo mi rassicura.)
Mi “trovo”, quando volo, soprattutto da me. Nel mio quartiere. Sopra casa mia e nei dintorni. E volo con incredibile facilità. (Lo aggiungo subito: volare per ore, durante il sonno, non mi ha quasi mai procurato incubi. Pure su questo, ci devo ben riflettere.)
Volo in questo modo: sbatto le braccia che tengo aperte sui lati. Basta un leggero colpetto e, op là, m’alzo dal suolo. Quando mi succede, volo dentro scene che distinguo bene. Proprio come fossi sveglio. Se mi trovo in alto, posso vedere particolari che altrimenti mi sarebbero sconosciuti. Come certe caratteristiche dei tetti. Questi voli notturni durano parecchio (nel sogno, volo sia di notte che di giorno). Il più delle volte mi diverto talmente, che la mattina, svegliandomi, mi sento bene. Di buon umore. (Benessere che dura per ore. Anche quando ho smesso di pensarci.)
M’è capitata qualche interruzione di volo. Fortunatamente, pochissime volte. Come quando il telefono s’è messo a squillare verso le tre e mezza di notte. Un tizio che si sbagliava! Uno sconosciuto che, scusandosi, balbettò che chiamava, per un urgenza, il suo medico.
Volo su posti che conosco. Ma pure su altri dove non sono mai stato; stranamente, però, questi luoghi sembrano esistere così come li ho sognati. In certi casi ho potuto verificarlo. Non so come funzionano queste visioni. (È probabile che si tratta di luoghi e cose che ho visto su delle fotografie?)
Viaggio anche su lunghe distanze. È quello che m’è successo con l’ultimo volo. Mi sono alzato dal suolo, sopra casa mia, con un colpetto di braccia. Sono rimasto un attimo sospeso, ad una cinquantina di metri sopra il campanile della grande cattedrale. Inesistente nel mio quartiere!
C’è qualcosa che non quadra, che mi sfugge completamente: normalmente, si tratta d’una chiesetta. Lo so bene. È raro che le immagini siano composte da luoghi mischiati in modo tanto illogico. Somigliava alla cattedrale di Firenze, con a lato il magnifico campanile di Giotto. (Che conosco per aver passato, in questa bellissima città, qualche settimana. Anni fa.)
Dopo un paio di giri su questa cattedrale dunque, ma nel mio quartiere, schizzo via come una rondine. Volo dritto in direzione del mare.
Il mio paese, tra le montagne, è abbastanza distante dal mare. Ad una trentina di chilometri in linea retta, a volo d’uccello. Siccome sogno, forse non posso tener conto di tali considerazioni. (Sognando questo, o altro, non m’è quasi mai capitato di sentirmi veramente stanco. E poi, diciamo la verità: una certa logica, c’è sempre. Siccome volo, non posso pensare alle distanze con gli stessi criteri che da sveglio. Ci mancherebbe altro!)
Volo verso il mare. A tratti, mi pare di volare proprio come una rondine. Ricordo certe belle picchiate, dopo essermi alzato alto nel gran cielo azzurro. Una rondine, però, che si comportasse come un uccello meno veloce. Posandosi, come questo, qui e là. Quando mi slancio lo faccio, mi sembra evidente anche da sveglio, con vivissimo piacere. Come se potessi guidare il sogno, coscientemente. Se ne ho voglia salgo, salgo... E giù a capofitto ch’è una vera bellezza.
Doveva essere un pomeriggio d’estate.
Faceva molto caldo, specialmente vicino al suolo. Questo, accentuava il piacere delle straordinarie picchiate. Per la freschezza che mi procurava l’aria attraversata a grande velocità. Come quando si mette un braccio fuori dal finestrino d’un treno che corre per ore sotto il sole d’agosto.
Ogni tanto, senza deviare dall’asse, scendevo per posarmi al suolo o sugli alberi . Non è che mi riposassi. Nel sogno, come ho appuntato sopra, non lo so, cos’è la fatica. Scendevo per vedere i posti che mi piacciono di più. (Adesso che ci ripenso da sveglio, erano quasi identici a quelli che vedo andando al mare.)
In qualcuna di queste soste mi sono successe cose assai bizzarre. Avevo fatto una magnifica picchiata, dalle cime della Serra del Volo (una coincidenza: si chiama realmente così) giù fino alla Fontana Rossa (chissà perché porta questo nome: di rosso, non ha nulla!). L’ho deciso di scatto, all’improvviso, e sono sceso in picchiata. Cari amici, che volo!
A pochi metri dalla fontana, mi sono posato su un muretto. Mi sono seduto. C’era tanta gente. Ma, dall’alto non potevo saperlo perché era nascosta dalle cime dei castagni. C’era più gente del solito. Più o meno, un centinaio di persone. Se ben ricordo. Facevano la coda per riempire bottiglie e orci e grosse taniche con l’acqua della fontana ch’è freschissima d’estate e che sgorga da due tubi d’oro massiccio, distanti d’un paio di metri al di sopra della lunga vasca che serviva agli animali.
Tranquilli, aspettavano il loro turno. Senza quell’impazienza che si ha quando i recipienti di chi ci precede sono tanti o troppo grossi. Cioè, lunghi da riempire. Tutti in fila, tranne tre belle ragazze, sedute vicino a me, sul muretto che corre lungo la strada che scende sinuosa dal paese fino al mare. Leggevano il giornale. Vedo che ogni tanto fanno commenti e ridono forte. La gente che va all’acqua sembra non farci caso. Alle ragazze voglio dire. Questo non mi dispiace. Come le ho viste, mi sono detto che sarebbe stato interessante conoscerle. Eh! se passiamo inosservati, tanto meglio...
Queste belle ragazze dunque, sono vestite all’antica. Camicette bianche e gonne con fiorellini ricamati, sotto i grembiuli color celestino. Quella in mezzo è bruna. Stretta contro la sua spalla, c’è la sua amica, la bionda; sulla destra, pure stretta a lei, una ragazza altrettanto bella, ma dai capelli rossi. Tengono il giornale insieme, aperto a metà. Su una doppia pagina che non si decidono a girare. Commentano e ridono. Intanto, aspetto il momento adatto per parlarci. Non voglio interromperle (sono molto belle, ve lo garantisco; gradevoli da guardare con discrezione).
La cosa dura. Ed io, devo partire, volare al mare (mi trovo ancora a metà volo). Mi sembra d’aver fatto un piccolo sforzo, piacevole, per alzarmi senza che se ne accorgano. Silenzioso, mi poso su un grosso ramo di castagno che si trova giusto sopra le tre meravigliose lettrici. Da là, vedo bene queste belle signorine che ogni tanto scoppiano a ridere. Voglio sapere cosa stanno osservando sul giornale, di tanto divertente. (Me lo sono chiesto a lungo, prima di volare sul ramo.) Finalmente, riesco a vedere quello che stanno guardando da un pezzo. (Adesso che annoto, mi pare che la scena col giornale è durata, più o meno, un’ora.)
Resto sbalordito! Le tre belle, delle quali non conosco il nome, stanno osservando l’immagine con la pubblicità del telefonino... (Ve ne ricordate?) Si tratta dello stesso numero implicato nel sogno precedente. (La Repubblica, la doppia pagina, nel numero del 18 aprile 2006.)
Guardo senza crederci. Ma, vedo bene che è lo stesso numero. La data è quella! L’immagina è identica. Col telefonino... (Mi resta il dubbio: si tratta di un telefonino?) Sotto il costume da bagno, teso sopra la natica. Quella natica col costume da bagno sulla pagina a sinistra, è la stessa (come in uno specchio). Ma nuda, sulla pagina a destra. Il tutto, cioè le due natiche, in primo piano.
Se fossi stato sveglio sarei cascato dal ramo. Ne sono sicuro.
Com’è possibile, mi chiedo, sognando, che possano leggere quel numero non ancora stampato? (Dato che questa scena l’ho sognata sei mesi prima.) Forse, penso, l’immagine pubblicitaria è già stata utilizzata in numeri precedenti? (La data, ogni volta che controllo, è quella.)
Sto così, imbarazzato, quando le mie signorine, la rossa, la bruna e la bionda, smettono di ridere e guardano, di scatto, verso di me. Sopra di loro. Divento un po’ rosso, lo ammetto. Come se nel sogno fossi ritornato quel ragazzino timido che arrossisce quando incrocia lo sguardo d’una ragazza.
Si mettono a ridere. Esclamano, insieme: “Guarda, sul ramo c’è un pollo!” Non capisco, subito, che parlano di me. Mi guardo intorno. Di polli, sui castagni, niente. Nemmeno l’ombra. Non ce n’è.
Allora, ho capito. Dopo questo attimo di smarrimento sognato. Indicano me! Ridono, rumorosamente, mostrandomi con le braccia tese. Mi dico: “Le lascio qui, e ritorno prossimamente. A piedi! Così, non ci troveranno più nulla di strano. Non mi prenderanno più, per un gallo!” Con questa precisa idea in testa, convinto che le avrei rivedute (forse mi ero lievemente innamorato? - sentimento che forse ho un po’ risentito nel sogno), m’alzo in volo. Qualche colpo di braccia e mi trovo nel cielo azzurro. Le ragazze e la gente sono ormai nascosti dagli alberi.
Se fossi stato sveglio, avrei continuato a riflettere su tante stranezze. Soprattutto sulla data del giornale. Sulla data impossibile. Ma dormivo. (Decisamente, i sogni non riesco a spiegarmeli bene. Se mai fossero spiegabili...)
In picchiata, verso il mare. Mentre mi sono già dimenticato delle tre graziose lettrici che m’hanno fatto arrossire. Volo come una freccia, con l’aria fresca che m’accarezzava il viso. Lontano, all’orizzonte, intravedo la lunga curva blu dell’orizzonte che sottolinea l’immenso arco di cielo, più chiaro. Giù, dove finiscono le terre, distinguo la striscia di sabbia che succede al verde intenso degli aranceti, assiepati sul litorale. Nel frattempo, volo sopra gli uliveti che coprono le colline sul magnifico golfo.
Non so quanto tempo dopo essere volato via dalla fontana, né perché decido di posarmi in uno dei paesi albanesi di questa zona. Mi poso a S. Demetrio Corone, dove sono stato qualche volta, da sveglio. Giù in picchiata fino alla piazzetta principale. Mi poso a lato del busto di Scanderbeg. C’è pieno di gente. Le signore anziane sono vestite coi loro splendidi vestiti tradizionali. Di fronte all’eroe s’erge, sontuosa, la fantastica Sagrada Familia di Gaudi. Con l’incredibile Facciata della Natività.
Lì davanti, vedo tre bancarelle su cui sono disposte tante bacinelle quadrate. Con un colpetto d’ali m’avvicino. Si tratta di pesci, in salamoia. Gli stessi, mi pare, che nel sogno già annotato. Le tre belle signorine sono sedute su un banco pubblico, sotto un albero (un arancio carico di frutti, mi pare) e tengono tra le mani il giornale. A questo punto, non so perché, mi vengono in mente pensieri che mi appaiono, ancora adesso che sono sveglio, discordanti. Discordanti col luogo, e tra loro. (Me li appunto.) So, di certo, che il cielo si oscurò per un attimo, lasciandomi vedere la Costellazione del Carro. Brillava come mai l’avevo notata. Da sveglio. (...)

-Altrisogni II

Rifece subito giorno. Come quando si accende la luce schiacciando il bottone. La piazzetta fu allora invasa da due squadre di musicisti che cominciarono a giocare al calcio. Con gli strumenti in mano. Con magliette e pantaloncini e calzettoni... si trattava di veri calciatori insomma, che suonavano e giocavano. (In vita mia, ho visto, alla televisione, qualche partita di calcio; ed una sola volta dal vivo, a Pisa, per la serie C. Senza contare le due o tre partite della Seconda divisione e quelle, molto più importanti, le rionali. Ma, come questa sognata, che annoto adesso, mai, ve lo assicuro)
Tiravano calci in ventidue palloni. Ognuno aveva il suo, compresi i portieri. Quando facevano goal, si fermavano e suonavano gli strumenti. C’era finanche la grancassa. Il calciatore che la suona la trasporta con facilità, e fa più reti degli altri. Suonavano motivi conosciuti ed altri per me sconosciuti. Ricordo che c’erano anche musiche celtiche, oltre la tarantella e la samba. E tante altre, talmente strane, che non so proprio come descriverle. Lo ricordo bene, tutto questo. Non saprei, inoltre, dire di che squadre si trattasse. Poiché nessuna squadra scende in campo con questi strumenti. Oltre le magliette che erano diverse anche tra giocatori della stessa squadra, pure i palloni erano differenti. Ad esempio, ce n'erano due coi colori delle coccinelle. Rossi con le macchioline nere, mi sembra. Quando venivano calciati alti, si mettevano a volare. Per andare in rete. Cosa che successe tre o quattro volte, se non sbaglio. Per quanto concerne il terreno di gioco (se possiamo definirlo tale): una delle porte si trovava davanti al busto dell’eroe /Scanderbeg/ e, l’altra, dieci metri più lontana, davanti alle bancarelle coi pesci. L’arbitro: ce n’era uno; suonava la batteria ed era posizionato davanti alla fantastica porta della Sagrada Familia di Gaudi.
Intanto, la bionda, la rossa e la bruna, s’interessavano unicamente al giornale. Ma, ogni tanto, mi davano un’occhiatina. Mi sorridevano, credo. (Mi sembra che mi mandarono perfino tre lievissimi baci, soffiandoli dalle mani aperte.)
Mi domando: questi strani e rumorosi giocatori cominciarono a disturbarmi? (Me lo chiedo giacché non so se si trattasse, realmente, di fastidio.) Comunque sia, mi decido e chiedo aiuto al Piccolo Principe. Gli domando: “Come faccio a volar via?” Il piccolo personaggio mi fa un’alzata di spalle. Come per dirmi (lo immaginavo sognando, beninteso): “Cosa vuoi che ti dica? Sono sul Quinto pianeta e rifletto sul perché e sul percome di questo lampione. Scusami tanto, ma non so proprio che dirti! Non posso pensare due cose alla volta, tanto complicate!” Non ti preoccupare, gli rispondo tra me e me. E lo saluto, dicendogli “Ciao!” E lui, pronto: “Ci vediamo!” Dicendomelo, i giocatori-musicisti scompaiono. Chissà dove.
Rifà buio (ma chi è che accende e spegne la luce?!). Vicino alla Costellazione del Carro, vedo un piccolissimo pianeta con sopra un minuscolo lampione che spande, nello spazio infinito, una fiochissima luce. Nel frattempo, passa una gran bella cometa. Ha una lunga coda che sprigiona miriadi di scintille che si trasformano in strani insetti dorati. In strane farfalle, per essere più precisi. Faccio segno verso il Quinto pianeta. Mi pare che s’illumina improvvisamente, come un piccolo sole.
Rifà giorno. Sedute al posto delle ragazze ci sono tre vecchiette. Ricamano orletti a tre camicette bianche. Ogni tanto guardano verso di me. Con aria assai preoccupata. Una, mi fa segno d’avvicinarmi. Somiglia alla regina d’Inghilterra. Stesso viso sorridente. Ma senza corona. Nè cappelli. Mi parla in italiano. Gli rispondo in inglese. Ci capiamo poiché conosciamo queste lingue (il Piccolo Principe mi aveva parlato in francese. Con un forte accento napoletano!). Mi domanda che faccio là, cosa cerco. Le due amiche (le tre anziane hanno capelli argentati ed una certa aria di Fata Turchina), seguono con attenzione la conversazione. Ogni tanto annuiscono, sorridendomi.
Mi metto a dire che volo verso il mare. Per andarmi a prendere un bagno perché fa caldo. Mi domando: questi strani e rumorosi giocatori cominciarono a disturbarmi? (Me lo chiedo giacché non so se si trattasse, realmente, di fastidio.) Comunque sia, mi decido e chiedo aiuto al Piccolo Principe. Gli domando: “Come faccio a volar via?” Il piccolo personaggio mi fa un’alzata di spalle. Come per dirmi (lo immaginavo sognando, beninteso): “Cosa vuoi che ti dica? Sono sul Quinto pianeta e rifletto sul perché e sul percome di questo lampione. Scusami tanto, ma non so proprio che dirti! Non posso pensare due cose alla volta, tanto complicate!” Non ti preoccupare, gli rispondo tra me e me. E lo saluto, dicendogli “Ciao!” E lui, pronto: “Ci vediamo!” Dicendomelo, i giocatori-musicisti scompaiono. Chissà dove.
Rifà buio (ma chi è che accende e spegne la luce?!). Vicino alla Costellazione del Carro, vedo un piccolissimo pianeta con sopra un minuscolo lampione che spande, nello spazio infinito, una fiochissima luce. Nel frattempo, passa una gran bella cometa. Ha una lunga coda che sprigiona miriadi di scintille che si trasformano in strani insetti dorati. In strane farfalle, per essere più precisi. Faccio segno verso il Quinto pianeta. Mi pare che s’illumina improvvisamente, come un piccolo sole.
Rifà giorno. Sedute al posto delle ragazze ci sono tre vecchiette. Ricamano orletti a tre camicette bianche. Ogni tanto guardano verso di me. Con aria assai preoccupata. Una, mi fa segno d’avvicinarmi. Somiglia alla regina d’Inghilterra. Stesso viso sorridente. Ma senza corona. Né cappelli. Mi parla in italiano. Gli rispondo in inglese. Ci capiamo poiché conosciamo queste lingue (il Piccolo Principe mi aveva parlato in francese. Con un forte accento napoletano!). Mi domanda che faccio là, cosa cerco. Le due amiche (le tre anziane hanno capelli argentati ed una certa aria di Fata Turchina), seguono con attenzione la conversazione. Ogni tanto annuiscono, sorridendomi.
Mi metto a dire che volo verso il mare. Per andarmi a prendere un bagno perché fa troppo caldo. Racconto l’incontro alla fontana, poco prima, e quella bizzarra storia del telefonino... pubblicizzato nel giornale La Repubblica.
La regina mi dice di non preoccuparmi. Che è una cosa normale, nei sogni. Se si sogna come si deve, i pesci possano nuotare anche fa troppo caldo. Racconto l’incontro alla fontana, poco prima, e quella bizzarra storia del telefonino... pubblicizzato nel giornale La Repubblica.
La regina mi dice di non preoccuparmi. Che è una cosa normale, nei sogni. Se si sogna come si deve, i pesci possano nuotare anche nella salamoia... “Finanche nella salamoia!?” esclamo io. Mi risponde: “E perché no? Cosa c’è di male?”. È successo anche a lei ed alle sue amiche, di sognarne cose simili. Me lo afferma con sovrana autorità. Mi rassicuro. Sono molto contento di sentirmelo dire dalla regina d’Inghilterra.
Adesso che sono sveglio, aggiungo un dettaglio importante. Qualche tempo prima di questo volo al mare, avevo ricevuta una cartolina dalla Gran Bretagna. Con sopra il viso sorridente della regina. Con la corona, la collana, gli orecchini e la spilla, zeppi di pietre preziose. Sono sicuro che questa cartolina (H. M. The Queen c’è scritto, nell’angolo superiore destro), c’entra parecchio con l’incontro sognato. Solamente, l’ho ricevuta in Francia e non in Italia. Ma questo, dev’essere secondario.
La regina fa un segno con lo scettro fosforescente che le appare nella mano destra. Ed ecco che mi trovo di nuovo in alto, nel cielo azzurro. Da là sopra distinguo, appena, lo scintillio degli zaffiri, smeraldi e diamanti di S. M. la regina d’Inghilterra. Dopo d’allora, quando vedo una sua foto, su giornali o riviste, non posso fare a meno di pensare che gli ho parlato. E che lei, con grande gentilezza, m’ha dato qualche buon consiglio sull’importanza dei sogni, soprattutto quando si fanno come si deve.
Di nuovo in picchiata, dopo essere rimasto una decina di minuti immobile, se non di più, a riflettere su quanto m’era successo a S. Demetrio, accanto al busto di Scanderbeg. Di nuovo giù a capofitto, verso il mare che, oramai, s’avvicina velocissimo. Già mi pare di poterlo toccare col naso che, per un attimo, si allunga di quante centinaia di metri.
Mi poso su una barca color blu provenzale. Sulla barca non c’è nessuno. La prima cosa che faccio, è tuffarmi, vestito, nell’acqua azzurra.
Nuoto con calma. Allontanandomi verso il largo. Mi sono messo in testa d’andare dritto fino all’orizzonte per, poi, ritornarmene sulla barca. Ma qui, devo annotarmi una cosa che m’è successa un po’ prima di trovarmi su questa barca. Altrimenti mi scordo.
Mi ero posato assai distante da S. Demetrio, e assopito contro un grosso ulivo. Ad un tratto, apro gli occhi ed assisto ad una scena che annoto con gli stessi versi che mi sono venuti in mente davanti a questo incredibile spettacolo. (Ogni tanto mi capita di comporre poesie sognando; ma, allora, posso dimenticarle facilmente.). La scena è questa (forse, con una certa confusione di tempi e di luoghi). L’ho sognata in dialetto:

"Chissu mi capitò ‘na vota, intra Santu Catavudu
scinniennu a’ Cadamu, pe’ mi cogliari i cavudi…
Ammuccieata, tra certi pampinelli ‘e acrudilla,
c’era ‘na cozzameruca chi guardeava ‘nu grillu...
Chi zumpettieava cuntientu, supa ‘i pizzicuorni,
‘ntuornu a ‘s’uocchjuzzi sua, c’assimianu cuorni…
Pe’ ammireari ‘s’acrobatu, rotannu d’uocchjcielli,
ti nni vidi ‘n avutru, sutta ‘nu finocchiellu
Chi steava là, fermu, cu’ ‘n’aria riposeatata,
pecchì ‘s’animadicchiu, s’era già curcheatu!
He’ ‘ntisu ’a cozzameruca, chi l’ha apostrofeatu:
“Fratta ‘un sta meai quietu, e tu si’ addormenteatu?”
Ci sugnu rimastu, ‘e stuccu, troppu affascineatu,
senza m’accorgiari, ‘e da notta orameai cadeata...
‘I cudiduci, pe’ m’alluciari s’eranu frattantu appicceati,
cumu pe’ diri: “‘E di cavudi, ti nni si’ scordeatu?”
Sutta ‘su muriciellu, quanti n’heaiu sonneati,
‘e ‘si grilli vizzarri chi duorminu tuttu ‘a jurneata…"
(* La trad., alla fine dei sogni)

Confusione di luoghi e di tempi dicevo. Questa poesiella*, coi grilli e la lumaca, l’avevo già sognata anni fa. È una di quelle poche che riesco a ripetere a memoria. La prima volta che l’ho sognata m’era successo addormentandomi sotto un muretto, nella campagna non lontano da casa. Andavo a raccogliere cavoli, nell’orto dei nonni. Il paesaggio era rigoglioso, verde. Ma questo, non penso che abbia un’importanza particolare. In breve, la lumaca ed i grilli sono ritornati. Nel senso che ho sognato la stessa scenetta. (Certi sogni sono ciclici. Devo approfondire questo aspetto che può riguardare la poesia anche dal punto di vista della creazione notturna; e forse, perfino come possibilità poetica delle realtà sognate. -
Nuoto. Faccio un’immersione qui, e una là; delle pause mentre mi dirigo dritto verso l’orizzonte. Scendo cento metri sotto la superficie, quando, senza aspettarmelo, chi ti vedo? Beh, vedo Pinocchio. Proprio lui! Col naso a posto. Sta seduto nella bocca, enorme, della balena. Con la mano, mi fa segno d’allontanarmi. Gli domando allo stesso modo (gestualmente quindi): “E perché?” E lui, insistendo: “Allontanati! Scappa via!”
Finalmente, dopa avere esitato, forse per una mezz’oretta (quanto si può essere duri di testa, a volte! Senza contare che fui costretto a trattenere il respiro), finalmente capisco che vuole evitare che la balena ingoi pure me. Lo ringrazio, e via! Risalgo in superficie. Adesso che l’annoto, mi sembra strano che il grande mammifero non abbia nemmeno accennato a nuotarmi dietro, per acchiapparmi e mangiarmi. Stava dormendo? (Questo spiegherebbe, secondo me, che Pinocchio si sia potuto affacciare così a lungo. Ma allora, perché non ne ha approfittato per squagliarsela?)
L’ho scampata bella. Chissà se avrei potuto salvarmi in compagnia del burattino. (Il futuro può darsi per scontato da svegli, certo: ma, quando si dorme, è tutta un’altra storia.) Stando in superficie, continuo a guardare giù, nelle profondità marine. Non si sa mai. Ma, convinto che s’era allontanata, ricomincio a nuotare, con maggiore lena.
Mi sono un po’ stancato (cosa rara nei miei sogni, dicevo). Mi metto a fare il morto. Guardo il cielo, e vedo passare qualche nuvoletta. Poi, una decina di aironi; qualche mucca, un motocarro giallo con una sola ruota, due giraffe rosse, un gruppo di elefanti con la maglietta del Milan (!), una 500 FIAT* arancione con dentro l’arbitro, un rinoceronte con due corna smisurate, davanti e dietro; centinaia di pesci; centinaia di polli. Tre aquile. Una con il collo bianco, una con il collo bruno, e la terza con il collo rosso. (Ricordo di averci fatto poco caso.) Subito dopo, meno alti nel cielo, passano due carovane, di cammelli e di dromedari (nel deserto: il cielo ne prende i colori, per un istante) che vanno in direzione opposte, su piste appena percettibili. Passa anche un autobus carico di giocatori di calcio, da dove provengono note conosciute ed altre particolarmente bizzarre, che non saprei descrivere. (Suoni dominati dai colpi sulla grancassa.) Quindi, una Rolls, lussuosissima, con la regina d’Inghilterra (mi fa un gesto sporgendosi dal finestrino). Passa pure una cattedra volante col mio più simpatico maestro che, alle elementari, dormiva a bocca aperta mentre noi scolari uscivamo dall’aula per andare a giocare a pallone davanti alla scuola. Dietro, ecco una cartolina svolazzante, con Parigi; una bella cartolina con la Torre, grande come una tovaglia da pranzo: quella di Biancaneve (che intravedo) quando pranza con i Sette Nani (assenti?). E tante altre persone e cose che sarebbe troppo lungo da raccontare. (M’accontento di quelle che m’hanno maggiormente impressionato.)
Nuoto felice, nel Mediterraneo. Arrivo all’orizzonte e, per una volta, mi sento talmente stanco (stanchezza che mi si abbatté addosso all’improvviso), talmente stanco, dico, che stavo per affogare. Sto andando giù. Nella bocca della balena? (Questo sì, che è un incubo! Mi ripeto mentre sprofondo.)
Mi salvano tre bellissime sirene. Mi prendono per le ali (o le pinne?), ormai inerti. (Avevo volato troppo? Anche se, dicevo, non mi era mai capitato di stancarmi, volando. Ma là, è vero, stavo veramente nuotando.). Tra le onde, sono circondato dalle tre meravigliose salvatrici che, sorridendomi, m’incoraggiano.
Mi fanno massaggi alle ali (o alle pinne?). Noto, senza darci troppa importanza, che hanno i capelli di diverso colore: rossi, bruni, e biondi. I visi sono gli stessi di quelli delle signorine incontrate presso la fontana. Arrossisco leggermente. (Non si trattava, di certo, d’un sogno estremamente eccitante, in quelle condizioni. L’eccitazione, se posso definirla così, era etica piuttosto che fisica. Non so se mi seguite.) Finalmente, m’accompagnano, ridendo e scherzando, fino alla barca. Sono incantato dalla situazione. Dalle mie brave e buone sirene, tanto diverse da quelle di Ulisse tra Scilla e Cariddi;
Mi spingono sulla barca dopo avermi dato un bacio ciascuna, sulle guance. E se ne ritornano, chissà dove. Contento, mi sdraio sul fondo della barca e m’addormento, mentre il sole comincia a passare dietro l’orizzonte. Il tramonto è stupendo. Riprendo a sognare. Devo dormire come un ghiro, quando, ad un tratto, sento che mi stanno scuotendo una spalla. Come per dirmi: “Su, svegliati!” Chi mi scuote? Il Piccolo Principe che, poi, riparte sulla scintillante cometa. Ormai sono sveglio e ben sveglio. Spunta l’alba. Il mare è sconvolto da onde gigantesche. Ben presto, la barca si capovolge. Non faccio in tempo a gridare aiuto che le mie belle sirene sono già accorse. Seguite da migliaia di pesci, d’ogni specie. Da parecchi delfini e da una grossa balena che spruzza.
Il mare s’è trasformato in immensa bacinella, riempita di salamoia (eh! per un lago sarebbe più difficile, dato ch’è riempito d’acqua dolce!) Mi spingono sulla riva. Verso Metaponto o verso Copacabana? Non ho tempo per pensarci. Mi dicono: “A presto!” E scompaiono, chissà dove. Sulla spiaggia, c’è Pinocchio, sempre lo stesso, trasformato in ciuchino (so che è lui perché avevo letto il libro con attenzione). Sta per essere gettato in acqua. Affogato dal compratore che ne vuole recuperare la pelle per fare il tamburo. Intervengo con decisione. Glielo do io il tamburo, a questo criminale! Voglio dargli un pugno sul naso! Ma, Collodi appare e mi dice con aria preoccupata: “Se intervieni così, adesso, io come faccio a terminare la storia che ho in testa?”
“Signor Collodi, avete ragione! - gli rispondo cortesemente - se lo salvo ora, poi non vi potrò più leggere come ho fatto prima!” - “Bravo! - mi complimenta l’autore del burattino più indisciplinato del mondo - hai capito tutto! Ma, dimmi un po’, cosa ci fai qui, a quest’ora? Da dove vieni?” (Non sa, non potendolo, che il suo discolo di legno m’ha salvato dalla balena. Ed io, ho appena dimenticato, annotando, se fosse l’alba quando Pinocchio rischiò grosso; cioè, d’essere salvato da me.)
Mi pare che s’è rifatto giorno di colpo. La spiaggia col ciuchino è scomparsa, come per magia. Come se stessi realmente sognando. (Sogno o son desto? Me lo domandavo oppure me lo domando solo adesso?.) Mi metto a riflettere, ma non a lungo. Do, quindi, un paio di vigorosi colpi d’ala (d’ala?) e salgo su, nel cielo azzurro. Sopra il Golfo di Sibari. Vedo le cime arrotondate del Pollino e, poco più in là, quelle del Monte Bianco. C’è tanta neve dappertutto, che scintilla sotto il sole del Mezzogiorno. C’è pieno di sciatori che salgono e scendono, a cavallo delle loro biciclette. C’è pure un asino. Ma lui, scende normalmente. Con gli sci per terra. Cioè, sulla neve (ne ha quattro naturalmente).
Guardo ad Est. Scorgo Itaca. Volo subito là, per vedere se Ulisse è arrivato. Non ancora. Penelope sta scucendo la tela (di giorno!?). La scena cambia. Ulisse tira con l’arco. Un vecchio cane che sembrava morto, si alza. Prendo a Sud, fino alle Grandi Piramidi. Mi siedo sulla più alta. Guardo giù e vedo passare una carovana di cammelli e di dromedari guidati da un faraone tutto sudato che si ferma e tira fuori una bottiglia d’acqua minerale S. Pellegrino. In cima ad una delle piramidi (la più piccola) c’è Cleopatra che mi fa un gesto amichevole. Come per dirmi: “Benvenuto in Egitto!”. Ma poi, mi schernisce! Mettendosi il pollice della mano aperta sul suo famoso naso. - “Incredibile!” (Esclamo, sognandola.)
Riparto. (Sulla terza piramide c’era la regina d’Inghilterra, ma non mi vedeva; stava facendo la maglia per il figlio; per il principe che aspetta di diventare re.). Volo e volo e, finalmente, rientro a casa. Penso: “Uff! Per stanotte, ho sognato abbastanza! Mi metto a letto. Ne ho veramente bisogno!”
Stamattina, finalmente, li ho annotati come si deve. (Avrei dovuto farlo prima. Mesi fa. Ci avrei guadagnato, riguardo alla precisione.) Adesso, questi sogni, anche se in parte sfumati, non li dimenticherò più. Se mi viene in mente qualche altro dettaglio, importante, lo aggiungerò un’altra volta. Tranquillamente. Altrimenti, va a finire che riportandone troppi, li confondo tutti. Correndo il rischio (ancora più importante) di confondere, completamente, sogni e realtà. Sarebbe il colmo. Dato che è la realtà che può, che potrebbe servirmi nel futuro: in qualche futuro tentativo di comprensione dei miei sogni. Benché, come dicevo, non ci creda affatto. Ma, non fosse altro che per curiosità, tentarne una critica, razionale beninteso, continuando a sognare, mi pare missione impossibile. Meno male che me ne rendo conto. A conferma che quando li annoto sono completamente sveglio. Presente a me stesso. Perfettamente cosciente. Altro che ABC dei sogni, altro che significati reconditi! Per me, si tratta di associazioni oniriche puramente casuali. Fini a sè stessi. (Tranne quando li annotiamo per riviverli sotto forma di semplici ricordi un po’ più bizzarri del solito.)
L’altro sogno è molto più breve. Durò un attimo.

- Sogno informatico

Sono seduto davanti un sofisticatissimo PC. Ultimo modello. Provvisto di larghe antenne paraboliche. A forma d’orecchi. Al centro, in basso, c’è la bocca. Piena di bottoni. Ha due schermi a forma di occhi. Sa parlare decine di lingue.
Mi sembra che gli manca il naso. Quanto intravedo sotto la tavola dov’è posato, a lato d’un mazzo di rose bianche e rosse (dentro un vaso che sembra di cristallo), non mi convince sul fatto che possa trattarsi di veri e propri piedi. Guardo meglio, abbassandomi. La visione resta vaga.
Decido di cliccare su una delle rose che intanto sono finite sugli schermi. Le rosse su quello di sinistra e le bianche a destra. Clicco sulle rosse che si sono messe a lampeggiare, come se lanciassero SOS.
Pinocchio, su un asino tirato da Geppetto, ordina al Gatto ed alla Volpe di scomparire (il tono è imperativo). E di non mettere più una sola zampa nel racconto del suo creatore. Detto fatto, scompaiono. Chissà dove. Ma ecco che appare la Fata Turchina, sulla carrozza. È bellissima, come nel film di Benigni. Roberto gli è seduto accanto. Saltella, si agita per dirmi: “Oh ‘he tu fai? Sali un po’ su ‘on ‘oi!” Non faccio in tempo. Il virus XYXY (sugli occhi, le due lettere sono enormi) interviene nel computer. La scena s’imbroglia, tanto da non potersi più descrivere facilmente. Provvedo con un anti virus potentissimo: il VR232STOP! Pinocchio appare e scompare, appare e scompare. Ragazzetto e burattino. Burattino e ragazzetto... (Una buona decina di volte.)
L’antivirus non ne vuole sapere. Meno male, ci pensa la Fata Turchina! Un colpo di bacchetta magica (si mette a scintillare), e al virus XYXY, che ha preso le sembianze di Mangiafoco, nasce un grosso bernoccolo sulla testa. Grosso come una zucca. Saltellando come meglio può, visto le dimensioni del bernoccolo (e dell’enorme pancione), scappa via. Strillando come una sirena dei pompieri parigini. “Poverino, che botta!” (Penso io mentre dormo. Beato.)
Salto sull’asino. Stranamente, Pinocchio si trova, adesso, sulla carrozza. Con Roberto Benigni e la Fata Turchina, Biancaneve ed i Sette Nani, Cenerentola, Pulcinella, Arlecchino e Colombina; e cento altri personaggi, fra cui S. M. la regina d’Inghilterra con H. P. (il maghetto).
Sulla testa dell’asino (tiene le orecchie girate in opposta direzione, come quello di Vincenzo Padula? Mi chiedo) ci sono due piccoli schermi. Simili a quelli del mio nuovo PC. Clicco sul collo. Sulla criniera, dove c’è una tastiera a forma di... di collo! All’asino spuntano le ali. Stavolta, penso, non sarò solo, a volare. Riclicco. Ci troviamo alti nel cielo.
Nell’azzurro, dopo un momento d’esitazione, clicco su un bottoncino (piccolo piccolo, come una specie di microtelecamera chirurgica) che si trova all’estremità d’un crine. L’asinello raglia come se ridesse (l’ho solleticato?). E poi mi fa, serio come un filosofo kantiano sempre serio: “Chi siamo? Dove andiamo?” Etc.) Ci rifletto. Pensando come un non kantiano (e non sempre serio) che non smetterebbe di domandarsi, quando non dorme: “Già, chi siamo? Donde vamos? Y che ci vamos a fare?”
Decidi tu, gli clicco. Parte come una freccia. Mi porta sulla Luna. Guardo se caso mai ci fosse il Piccolo Principe, perché gli vorrei chiedere non so più che cosa. Ma non c’è. Vedo, però, uno strano robot a sette zampe che, avanzando all'incontrario (?) tra i sassi lunari, fa il fotografo. Si gira e ne fa una pure a noi. L’asino mi dice: ”Domani, siamo sui giornali!”
Riclicco. Riparte come un lampo. Durante il viaggio nello spazio (non capisco dove stiamo andando), clicco su “www.Fontana Rossa.com”. E subito, ci posiamo vicino alla fontana. Tutto sembra tranquillo. Le tre signorine sono sempre lì. Ne sono contento. L’asinello non la smette di ridere ragliando. Gli dico: “Se continui a fare il comico, chissà cosa penserà di noi, la gente seria!”
Non m’ascolta. Le tre lettrici, comunque, non ne sono infastidite. Anzi, ci lanciano tre sorrisi smaglianti, pubblicitari. La folla, continua a riempire le bottiglie e gli orci. La bionda, la rossa e la bruna, s’alzano e ci raggiungono. Scendo dall’asino che se ne vola sopra il ramo, dove m’ero posato nei sogni precedenti. Mi danno tre baci sulle guance, e mi dicono: “Dai, vieni al mare! Andiamo a farci un bagno!” Rispondo, preoccupato: “E l’asino?” - E loro: “Non ci pensare, ritorna nel libro!”
Questa volta, siamo in quattro a sbattere le ali (le ali?). Voliamo dritti verso il mare. Passiamo sopra la Sagrada Familia di Gaudi, sopra S. Demetrio, senza fermarci. Eccoci sulla spiaggia, sotto l’ombrellone arcobaleno. Fa un caldo...
Mi spalmano la crema. Mi sento bene. Immaginatevi, voi, al posto mio. Con queste tre incantevoli creature. Nude come mamma l’ha fatte! (Mi domando, adesso che sono sveglio e sto annotando quest’altro sogno: “Il numero 3, giacché sono sempre in tre loro, ha un significato particolare?” Non ricordo più se è questo il Numero Perfetto. Uhm, no, dovrebbe essere il 7. Dovrò controllare.) Prendiamo un bagno ch’è una bellezza. Nuotiamo insieme, felici, verso l’orizzonte.
Si ripete, quasi identica, la scena del sogno precedente, dove incontro la balena con Pinocchio in bocca e le tre Sirene. Dove ho rischiato di affogare. Adesso, mi sembra che tutto è successo più velocemente; durante l’attimo in cui le tre belle signorine pubblicitarie scomparvero. Di nuovo, intervengono le Sirene che, invece di portarmi sulla barca, m’accompagnano dalle mie amiche senza coda (ma con certe gambe!), giunte all’orizzonte (mi stavano aspettando, ero rimasto indietro). Ci spruzziamo l’acqua addosso. Loro, come dicevo, sono nude. Io, invece, ho un bel costume da bagno, con ricami a forma di chitarre, di sax, e di mandolini (sono uno organizzato).
Finalmente, in compagnia di cento delfini e della balena che spruzza (ci fanno da scorta, insieme alle tre Sirene), ritroviamo la spiaggia. Balena, Delfini e Sirene si trasformano in schiuma argentata che se ne va verso il largo. Chissà dove.
Ci sdraiamo sulle tovaglie blu provenzale. Sotto l’ombrellone. Là sotto, continuo ad abbronzare (!). Ne sono sicuro, considerando com’ero pallido ieri sera. Voglio dire: stamattina, mentre annoto questo sogno, si direbbe che ho passato un intero mese di vacanze al mare!
Mi sembra che mi sto un po’ innamorando. Delle mie tre amiche che, intanto, si sono messe a leggere La Repubblica.
Mano mano, cominciano a coprirsi di articoli (ohi ohi ohi!). Di parole che le accarezzano, scorrendo piano piano lungo i bellissimi corpi pubblicizzati, mentre telefonano. Chissà a chi. (Ne approfitto per rileggerne uno di Pietro Citati: certe sue riflessioni sul mare incantevole della sua infanzia. Un articolo di qualche anno fa, mi pare.)
Fa veramente caldo... Abbiamo sete... Ci dirigiamo, a braccetto, verso la grande casa tra i pini, con le finestre blu. (Non so, ancora adesso, a chi può appartenere. Ho degli amici in Provenza ma le loro finestre non sono blu!)
Nella cucina, sul tavolo, c’è un vaso di cristallo (o di vetro?). Con un magnifico mazzo di rose bianche e rosse.
La bruna, la rossa e la bionda, sospirano. Esclamano: Stiamo morendo di sete!”
Tiro la maniglia del frigorifero. Prendo il succo di arance sanguine di Sicilia e riempio quattro bicchieri.
Uff! Finalmente!
Mi sveglio. Con una sete che non vi dico... (...)- (CONTINUA) -
- Ninnillo
Prossimamente (?) l’Ultimosogno. Il più lungo("Dislocazione sonnambula"...) Sempre da STRANISOGNI.

Anonimo ha detto...

ALLA REDAZIONE: copiando ed incollando poco fa, una delle pagine del testo originale... è venuta fuori raddoppiata! Quindi, tutto lo scritto di prima, sopra, va tolto. Lo ricollo, quindi, dopo aver provveduto. Grazie mille!
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Molto bello ed interessante l'articolo di Antonio Tabucchi! L'avevo già letto; ed anche nella sua traduzione francese apparsa con altri suoi articoli su "Le Monde". E' un autore che mi piace molto. Una volta, anni fa, in una famosa emissione letteraria, sempre in Francia, fu intervistato da Bernard Pivot (conduce programmi famosi, sulla letteratura e l'arte). Fu divertentissimo (ebbe il privilegio di essere intervistato da solo, come un Grande......), mentre parlava di letteratura (e della politica italiana...), facendo com'è sua abitudine... qualche riferimento a Fernando Pessoa (una "miniera piena di pepite d'oro" che leggo sempre molto volentieri: libri ed articoli: gli uni più interessanti degli altri: non so se, ad esempio, avete letto quanto scrissi tra gli anni venti e trenta... sulle caratteristiche del provincialismo portoghese o più in generale: dicendo, tra l'altro, che gli intellettuali provinciali fanno prova di mancanza d'ironia, o di un entusiasmo eccessivo per il Nuovo, etc.; o ancora, il suo famoso "O banqueiro anarquista", Il banchiere anarchico - uno dei suoi "esercizi di deduzione" - apparso nella rivista "Contemporarea nel 1922)... Ehm, dove eravamo restati? Ah, facendo riferimento a Fernando Pessoa, Tabucchi non la smetteva di grattucchiarsi il viso, le orecchie, il naso, più altre contorsioni sulla poltrona dov'era "seduto"! Uno spasso assoluto mentre diceva mille cose interessanti...
Ritornando all'articolo: molto bello e profondo quanto scrive sulle motivazioni della scrittura, sul perché si scrive...
In breve, trovo ottima l'idea di proporre questo genere di articoli sul Blog dei Pirati & Corsari... che navigano a Gonfievele contro corrente...
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Ora, siccome il mio amico Ninnillo mi aveva fatto avere (ve lo avevo già detto mi sembra) diversi sui scrittarelli come li definisce (dicendomi che non si prende né per Pessoa, né per Tabucchi, né per o per... etc.; che si diverte, semplicemente... - spesso, se non sempre...), sono riuscito ad ottenere la sua approvazione (a fatto un po' finta di esitare ma in fondo gli fa piacere): posso renderli pubblici (a condizione che non siano in intero!). Allora, vi propongo questo suo strano scritto (senza né testa né coda di pesce!!!???). Certo, è un po' lunghetto... Ma, lo si puo' leggere anche poco poco poco... alla volta; volendolo... O, op! saltarlo(!).
J.xck.
P.S. Se ci sono errori questi sono dovuti "a me" e non all'autore (mi aveva chiesto di correggere!)
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- Stranisogni

Veramente, do poca retta ai sogni. Non ci credo. Se sogno qualcosa per me non significa granché. Certo, sogno e come, e spesso (incubi o bei sogni, dipende). Se non li dimentico (mi accade assai regolarmente, svegliandomi) non ne traggo nessun insegnamento, alcuna preveggenza. Anche quando potrebbe sembrare che vogliano avvertirmi di un pericolo.
Qualcosa l’ho letta a proposito di questi strani fenomeni. Se ne sono dette e scritte tante... Freud ad esempio. L’ho letto abbastanza ma non mi ha mai convinto. Anche se diceva certe cose interessanti, le sue interpretazioni le ho sempre considerate tutt’altro che obiettive. Tutte queste “dimostrazioni” basate su teorie tutt’altro che scientifiche, le considero fondamentalmente errate (l’inconscio ad esempio).
So che ci sono Specialisti che pretendono di poter interpretare i sogni. Di questi non ne mancano. Per non farla lunga, piuttosto che continuare con cose che ognuno di noi conosce (più o meno s’intende), sicuro che ciờ che leggerete qui sotto non si presterà ad alcun malinteso, vorrei farvi approfittare di quanto mi è capitato di sognare stanotte. Qualche ora fa. Sogni freschi per così dire. Nitidi, tanto che ne ricordo tutti i dettagli o quasi. Chissà, magari vi sarà successo di sognare cose simili. Allora, mi dico adesso: questi miei “viaggi” notturni potrebbero servirvi. Per un eventuale riscontro d’idee. Voglio dire, di confronto tra i nostri sogni. (Se qualcuno vi trovasse significati bizzarri, palesi o reconditi, gliene lascio l’intera responsabilità. Questione di libertà personale.)
Ho sognato varie cose. Incomincio con la scena più lunga. Pare che da un punto di vista scientifico ci siano fasi notturne diverse, più o meno attive. (Persone dotate, lo ripeto, potranno interpretare come gli garba quanto sto per raccontarvi con sincerità. Giusto per dirvi che non sono frottole.)
Mi trovavo in una cucina. Spaziosa. Sul tavolo c’era un vaso di cristallo (o di vetro?) con dentro un bel mazzo di rose. Grandi rose, bianche e rosse. Molto belle, come appena tagliate. Ricordo, perfettamente, il grande frigorifero. Stile Anni ’30 (già esistevano, i frigoriferi.). Ma, forse confondo con gli anni Sessanta. O con uno di questi post frigoriferi che imitano gli stili passati. Non sono esperto in frigoriferi, e meno che mai nei loro stili. Poco importa. Un grande frigorifero bianco con una grossa maniglia. Andavo ad aprirlo per bere qualcosa di fresco. Una spremuta di arance, 100% di frutta. (Il gusto medicinale di quello a base di concentrato non mi va.) Sapevo che ce n’era e mi piace molto. Succo di arance sanguigne di Sicilia, il mio preferito.
Quel giorno faceva molto caldo. Ritornavo da una lunga passeggiata, accompagnato dal canto familiare delle cicale. A conferma della netta impressione d’essere in Provenza. Forse, nella campagna di Nimes. Le finestre erano color blu provenzale. Come quello delle barche, sulla costa.
Apro la porta e mi trovo davanti uno spettacolo bizzarro. Sicuramente inconsueto. Il frigorifero era pieno di polli. Decine di polli. Spennati e stipati stretti gli uni sugli altri, dalla base in su. Grossi polli, d’ottima qualità. Il colorito roseo mostrava che avevano beccato all’aria aperta. Logica deduzione che facevo nel sogno. Non si trattava di pollame industriale. E questo, malgrado la sorpresa, non mi dispiaceva. Ne ero contento. Come quando al mercato uno direbbe: “Che buoni questi polli!”
Del succo di arance, nessuna traccia. Le due scatole, con tutto il resto: uova, legumi, prosciutto cotto e crudo, qualche birra, il formaggio... erano spariti. Mi domandavo, sempre logicamente: “Ma chi li ha tolti per metterci tutti questi polli?” Senza risposta. Non sapevo, né so, a chi appartenesse la casa.
Perché c’erano tutti questi polli nel frigorifero? Restavo là davanti, a grattarmi la testa. Un po’ preoccupato? (Questo sentimento è difficile da precisare, anche da svegli.) Sorpreso, e deluso (a causa della sete, ne sono sicuro), ho chiuso la porta. L’ho aperta e chiusa tre o quattro volte. I polli c’erano sempre. Se avessi continuato avrei avuto un incubo? Possibile.
Vado ad aprire gli armadietti della cucina. Sui lati e dal basso verso l’alto rispetto ai rubinetti d’oro ed alle vaschette d’argento. Altra incredibile sorpresa. Mi aspettavo qualche nuova bizzarria, certo, ma come ho visto i pesci in salamoia dentro la dozzina di bacinelle quadrate, non sapevo più cosa pensare. Questi pesci erano vivi. Nuotavano, là dentro. Ce n’erano perfino nelle due vaschette e nuotavano come fossero nel Mediterraneo. Però, erano in salamoia. Ne sono sicuro. Centinaia di pesci e pesciolini: acciughe, sardine, anguille, e via dicendo. Le bacinelle di plastica, prive di coperchi, erano sistemate negli armadietti della cucina. Ce n’erano di diversi colori. Ricordo che mi sono chiesto: “Cosa significano questi pesci messi così? Il pesce mi piace, in generale. Ma ne mangio poco. In particolare, mi piacciono le sardine arrostite.”
Restavo là, sorpreso. Uno sbalordimento addormentato, certo, ma pur sempre di autentico sbalordimento si trattava. Ingenuamente, mi chiedevo e richiedevo: “Ma che ci fanno, qui, dei pesci che nuotano nella salamoia? Ed i polli nel frigorifero? Chi ce li ha messi? E perché?” Mi sembra che mi sono pure chiesto se c’erano entrati da soli.
Purtroppo, non ho a portata di mano nessun Manuale dei sogni. Altrimenti, stamattina, avrei subito cercato le parole “pesce” e “pollo”. Per vedere un po’. Provvederò. Per adesso, m’accontento dei pochi pensieri che mi vengono in testa. Che sto annotando a mente sveglia. Pesci... Polli... Resto senza risposte convincenti. Richiudo i tiretti e le porte degli armadietti. Dopo aver controllato un’ultima volta nel frigorifero. I polli, c’erano sempre.
Così s’è concluso il primo dei miei sogni di stanotte. Se mi torna in mente una di queste notti, cercherò di approfittarne: farò un’inchiesta. Osserverò meglio la scena.
Queste immagini non m’hanno procurato nessun panico. Non era un incubo. (Lo sarebbe diventato proseguendo? Quando dormo, quasi tutto diventa possibile. Finanche, di credermi sveglio.)
In attesa della buona soluzione (se mai ce ne fosse), passo subito al sogno minore, durato metà del primo. Se l’ordine cronologico è realmente questo. Come mi pare adesso che sono sveglio.
Poco tempo dopo - non saprei stabilirlo con esattezza - ho ricominciato a sognare, sempre assai nitidamente. Un sogno privo di pesci e polli. Nemmeno l’ombra, di questi. Mi trovavo su una spiaggia. Sotto un bel sole. Mare calmo, d’un azzurro meraviglioso, da bella cartolina con la Grotta Azzurra che m’ha spedito un amico. Ero disteso sulla sabbia calda. Al riparo d’un ombrellone colorato come un arcobaleno.
Sto leggendo La Repubblica. Giornale che compro ogni tanto. Capito su due pagine dove c’è, in grande, la pubblicità per un telefonino... (Si trattava di telefonini? Nel sogno non è chiaro; forse, era secondario.) Il telefonino... è infilato dentro il costume da bagno, ben teso sulla natica d’una bellissima ragazza (lo presumo, la pubblicità ne mostra solamente la parte bassa, leggermente rivolta verso il lettore). Forma una bossa, a forma di telefonino.
Disteso a pancia in giù, appoggiato sui gomiti, guardo questa pubblicità elettronica. Un po’ enigmatica. Ad un tratto, come per magia, il giornale sparisce. Non c’è più. Mi trovo davanti non una, ma tre belle ragazze. Senza il misterioso apparecchietto pubblicizzato. (Non somigliano a nessuna delle amiche che conosco.)
Devo riconoscere (volentieri, in fondo), che le donne mi piacciono. Come alla maggior parte degli uomini. Ma là, nel sogno, sotto l’ombrellone, le contemplavo senza pensieri particolari. Vedete cosa voglio dire. Ne apprezzavo le forme. Erano nude. Le stavo osservando (filosoficamente, dunque) quando, all’improvviso, sui corpi di queste tre ragazze cominciano a sfilare parole stampate. Come su uno schermo. Più o meno. (E qui, il legame con La Repubblica mi sembra evidente.)
Gli articoli di questo giornale sfilavano. Sulla politica, lo sport, ed altri per me più interessanti. Quelli culturali. Ricordo, benissimo, d’averne letto uno di Pietro Citati ed un altro di Alberto Arbasino. Autori che leggo volentieri. Gli articoli sfilavano con movimento che pareva aiutare gli occhi: da sinistra a destra, scendendo mano mano. Cominciavano coi titoli, sui capelli (biondi, bruni, e rossi): come se le modelle fossero tre colonne su uno schermo che riproduce un foglio di giornale. Poi, scendevano. Collo, spalle... mentre le signorine giravano su se stesse. Ombelico, fianchi... E giù, lungo le gambe affusolate. Fino ai piedi.
Non pensavo a nulla di particolare, dicevo. Certo, gli articoli, presentati in questo modo originale, lo erano e come, un po’ eccitanti. Lo riconosco adesso che sono sveglio. Io, però, m’interessavo al CONTENUTO degli articoli. Di Arbasino, uno scritto di qualche anno fa (che avevo già letto, dunque), sul risotto italiano (vario, barocco) rispetto a quello giapponese (minimalista, zen). Molto interessante.
Stamattina, scrivendo di getto questi appunti, non riesco a capire se le ragazze significassero qualcosa in più, di diverso, riguardo ai contenuti (culturali, politici, sportivi) del giornale. Quale legame con la linea editoriale del quotidiano? Se su una spiaggia qualsiasi vedessi questa scena, penserei, realmente, ad un nuovo modo di far pubblicità. O a qualcosa del genere. (Sorvolo su queste possibilità che potrebbero già esistere senza che me ne sia accorto. Guardo poco la televisione, ed al cinema ci vado raramente.)
Non fu un cattivo sogno. Anzi, mi sembra che l’ho apprezzato. Certo, svegliandomi, ho avuto come un leggero disappunto. Avrei voluto che succedesse qualcosa? (oltre la lettura, intendo). Possibilità che non devo scartare. Quando si dorme (me lo ripeto da quando mi sono svegliato) i livelli di comprensione sono assai illogici. Vanno un po’ per i fatti loro?
Riassumo: stanotte ho sognato tre belle ragazze: una bruna, una rossa e una bionda, che servivano, letteralmente, da pagine di giornale. Questo è certo. Così come i pesci nelle bacinelle ed i polli nel frigorifero. Mi sottolineo questa domanda: Ci sono, o no, relazioni tra i due sogni, fra le ragazze e gli animali?
Il mare? Forse. Ma non ci sono andato da diversi mesi. E poi, pure quando non ci sono stato per quasi un anno, questi effetti non si sono mai prodotti. La sete o la fame? La sete è da escludersi. Siamo in primavera e Parigi non è surriscaldata come durante le recenti estati. Bevo normalmente. Acqua e qualche bicchiere di succo di arance siciliane. A volte, un po’ di birra o di vino. O di champagne. Per la fame, non ne soffro. Non ho fatto indigestioni negli ultimi anni. Tutto va bene pure da questo lato, mi pare.
Si tratta d’una gran voglia di stare con qualche bella ragazza? Lo escludo, almeno di giorno. Sono sposato. E fedele. Il sogno, inoltre, con le forme e tutto il resto, non era estremamente eccitante. (Pure questo, lo sottolineo. A scanso d’equivoci.)
Quando avrò più tempo, mi metterờ alla ricerca d’un buon libro (tipo ABC dei sogni) che possa fornirmi (lo spero) risposte perlomeno un po’ soddisfacenti. Per il momento, non ne intravedo. Giro a vuoto. Conseguenza di queste prime riflessioni: i miei sogni non sembrano significare granché. Nulla di veramente preciso.
Sto appuntandomi questi ultimi sogni ed in mente me ne ritorna qualche altro, più vecchio. Il fatto è che se li dimentico facilmente, ce ne sono alcuni, invece, che sembrano più resistenti; che continuano a galleggiare, come meglio possono, nella memoria. Pure distanti nel tempo. C’è anche qualche incubo. Forse perché sono di buon umore, stamattina, ricordo soprattutto quelli piacevoli. E qui concludo i sogni di qualche ora fa (notte del 30 al I° Maggio, Festa dei lavoratori).
Dimenticavo. Ho detto che le tre belle ragazze scaturite dalle pagine del giornale non avevano granché di “estremamente eccitante”... Ciò nonostante vi chiederete (lo immagino) se dopo aver letto gli articoli apparsi sui tre corpi nudi sia successo altro.
Vi rispondo subito. Smesso di leggere il giornale, cioè le ragazze, queste belle signorine, benché m’avessero sorriso in un modo che mi sembrò assai malizioso (ma forse m’illudevo sognando), sono scomparse. Io, allora, mentre continuavo a pensare alla scena appena vista, osservai tre onde sulla calma superficie del mare. Vidi tre belle creste schiumose allontanarsi verso il largo.
Quest’estate, forse potrò avere una risposta sul significato forse nascosto di tutte queste visioni. Andrò al mare da sveglio, ben cosciente d’andarci. (L’Incosciente? Beh, non penso d’averlo. Non credo che esista. Almeno per quanto mi riguarda. Ne ho lette, riflettendoci. Ma, non sono convinto da queste teorie.)
Vado al mare, su una spiaggia ben soleggiata. Porto con me lo stesso numero del giornale (La Repubblica del 18 aprile 2006). Quello con la famosa pubblicità. Me la metto sotto gli occhi ed aspetto. Per vedere un po’ cosa succede. Anzi, meglio se intanto mi addormento sotto l’ombrellone...
Che caldo! Sono all’ombra e muoio dal caldo. Berrei una spremuta di arance bella fresca.. Sto leggendo il giornale. Le solite. I soliti politici. Tre paragrafi letti e già mi annoio mortalmente. Si ripetono, si ripetono.... I giornalisti li prendono sul serio. Chissà perché. Pure quando tutti questi professionisti dello sbadiglio-politico sbadigliano tra loro, i giornalisti lo riportano, lo riportano... Meno male, li compro raramente, i giornali. E gli articoli politici, spesso noiosissimi, li salto volentieri.
Ecco le pagine con la pubblicità del telefonino... Doppia pagina. Per attirare doppiamente lo sguardo. Per costringermi a ben individuarlo. È là, sotto il costume, sulla bella natica di carta. Cosa succede? Dov’è La Repubblica che sto leggendo? Le ragazze avanzano verso di me. La rossa, la bionda e la bruna. Nude come Eva prima della mela. Mi stropiccio gli occhi. Sì, non una ma tre. Penso: “Ecco Eva & Eva & Eva. Una più bella dell’altra. Quale preferisco? Non lo so.”
La Natura... Com’è misteriosa! Come fa a crearne con queste forme da sfilata di moda per modelle sempre dimagrite? Su quale base? (Per il momento, la metto da parte, la metafisica... Queste sono cose complicate. Non le posso risolvere qui, adesso, su una spiaggia piena di gente e di sole.)
Sono sicuro che ho gli occhi spalancati. Ne guardo una. E poi le altre. E ricomincio. S’avvicinano... Siedono accanto a me. Mi sorridono, sotto l’ombrellone-arcobaleno. Gli articoli li ho completamente dimenticati. Mi sembra che pure loro tre, hanno caldo. La bruna comincia a mettermi la crema solare sui piedi. La bionda sulle braccia. La rossa, sulle spalle. Mi sento bene. Tranquillo. Immaginatevi sotto l’ombrellone. Con Eva e Eva e Eva...
Forse, ho una delle risposte che cercavo. Il sogno, interrotto la mattina del Primo Maggio 2006, se fosse continuato avrebbe avuto esiti più’ eccitanti. Eva moltiplicata per tre. Prima della mela...
Mi domandano in coro: “Ce l’offri un bicchiere di succo di arance?” Contento di rendermi utile, rispondo: “Volentieri!”
Apro la porta del frigorifero...

- Altrisogni

Dicevo, all’inizio che do poca retta ai sogni. Che non ci credo. Ma poi, con apparente contraddizione, accennavo ad un Manuale dei sogni, da consultare. Ad un ABC dei sogni, se vi ricordate. Come si spiega, me lo sto domandando solamente adesso. Se non ci credo, quale vantaggio potrei trarne da questi manuali? Poiché, ne sono convinto, l’interesse non andrebbe al di là della pura curiosità. Ricordate i pesci nei tiretti ed i polli nel frigorifero? Ebbene, anche controllando nell’ABC, non penso proprio che ne avrei benefici. Giacché (appunto), queste spiegazioni credo che siano, soprattutto, fandonie. O qualcosa del genere. Ma, sorvoliamo. Resta, che mi sono contraddetto. A causa, forse, della fretta. Annotando in fretta, e subito dopo essermi svegliato, dovevo avere le idee ancora relativamente confuse. Un po’ come quando si sta per uscire da un dormiveglia agitato.
Comunque, ciò che veramente conta, è che, oramai, ho preso l’abitudine d’annotare i miei sogni. Un’ottima decisione, ne sono sicuro. Convintissimo. Prima, ne dimenticavo tanti. La maggior parte. Anche quando non lo meritavano. Un bel sogno non andrebbe mai dimenticato. Avevo esitato, come quando non si è completamente sicuri di quello che si deve o si può fare. Per anni, ho sognato invano, praticamente. Perché è proprio vero che una volta dimenticati non possono servire a niente. Se l’avessi annotati, scrupolosamente intendo, da sveglio potrei riviverli come si deve. Come e quando mi piace. Tranquillamente. (Riflettevo in questi termini, quando mi sono deciso a prendere penna e carta.)
Certo, tra quelli che non ho mai annotato, ce ne sono che ricordo almeno in parte. Ne ricordo le immagini più vive. Pure tra quelli lontani nel tempo. Ce n’è uno che ho fatto spesso. Ma con alcune varianti. Mentre la caparbia fissità delle immagini più importanti si è ripetuta tale e quale. Sarà stata una coincidenza, poco tempo fa m’è ritornato. (Sognando, mi sembra che le coincidenze sono più numerose che da svegli.) Questa volta, però, anche se con grande ritardo, lo annoto come si deve.
Avevo ricominciato a volare. (A proposito di voli sognati, avevo sentito dire, non ricordo da chi o se l’ho letto, che volare sarebbe il sogno più comune. Se è vero, questo mi rassicura.)
Mi “trovo”, quando volo, soprattutto da me. Nel mio quartiere. Sopra casa mia e nei dintorni. E volo con incredibile facilità. (Lo aggiungo subito: volare per ore, durante il sonno, non mi ha quasi mai procurato incubi. Pure su questo, ci devo ben riflettere.)
Volo in questo modo: sbatto le braccia che tengo aperte sui lati. Basta un leggero colpetto e, op là, m’alzo dal suolo. Quando mi succede, volo dentro scene che distinguo bene. Proprio come fossi sveglio. Se mi trovo in alto, posso vedere particolari che altrimenti mi sarebbero sconosciuti. Come certe caratteristiche dei tetti. Questi voli notturni durano parecchio (nel sogno, volo sia di notte che di giorno). Il più delle volte mi diverto talmente, che la mattina, svegliandomi, mi sento bene. Di buon umore. (Benessere che dura per ore. Anche quando ho smesso di pensarci.)
M’è capitata qualche interruzione di volo. Fortunatamente, pochissime volte. Come quando il telefono s’è messo a squillare verso le tre e mezza di notte. Un tizio che si sbagliava! Uno sconosciuto che, scusandosi, balbettò che chiamava, per un urgenza, il suo medico.
Volo su posti che conosco. Ma pure su altri dove non sono mai stato; stranamente, però, questi luoghi sembrano esistere così come li ho sognati. In certi casi ho potuto verificarlo. Non so come funzionano queste visioni. (È probabile che si tratta di luoghi e cose che ho visto su delle fotografie?)
Viaggio anche su lunghe distanze. È quello che m’è successo con l’ultimo volo. Mi sono alzato dal suolo, sopra casa mia, con un colpetto di braccia. Sono rimasto un attimo sospeso, ad una cinquantina di metri sopra il campanile della grande cattedrale. Inesistente nel mio quartiere!
C’è qualcosa che non quadra, che mi sfugge completamente: normalmente, si tratta d’una chiesetta. Lo so bene. È raro che le immagini siano composte da luoghi mischiati in modo tanto illogico. Somigliava alla cattedrale di Firenze, con a lato il magnifico campanile di Giotto. (Che conosco per aver passato, in questa bellissima città, qualche settimana. Anni fa.)
Dopo un paio di giri su questa cattedrale dunque, ma nel mio quartiere, schizzo via come una rondine. Volo dritto in direzione del mare.
Il mio paese, tra le montagne, è abbastanza distante dal mare. Ad una trentina di chilometri in linea retta, a volo d’uccello. Siccome sogno, forse non posso tener conto di tali considerazioni. (Sognando questo, o altro, non m’è quasi mai capitato di sentirmi veramente stanco. E poi, diciamo la verità: una certa logica, c’è sempre. Siccome volo, non posso pensare alle distanze con gli stessi criteri che da sveglio. Ci mancherebbe altro!)
Volo verso il mare. A tratti, mi pare di volare proprio come una rondine. Ricordo certe belle picchiate, dopo essermi alzato alto nel gran cielo azzurro. Una rondine, però, che si comportasse come un uccello meno veloce. Posandosi, come questo, qui e là. Quando mi slancio lo faccio, mi sembra evidente anche da sveglio, con vivissimo piacere. Come se potessi guidare il sogno, coscientemente. Se ne ho voglia salgo, salgo... E giù a capofitto ch’è una vera bellezza.
Doveva essere un pomeriggio d’estate.
Faceva molto caldo, specialmente vicino al suolo. Questo, accentuava il piacere delle straordinarie picchiate. Per la freschezza che mi procurava l’aria attraversata a grande velocità. Come quando si mette un braccio fuori dal finestrino d’un treno che corre per ore sotto il sole d’agosto.
Ogni tanto, senza deviare dall’asse, scendevo per posarmi al suolo o sugli alberi . Non è che mi riposassi. Nel sogno, come ho appuntato sopra, non lo so, cos’è la fatica. Scendevo per vedere i posti che mi piacciono di più. (Adesso che ci ripenso da sveglio, erano quasi identici a quelli che vedo andando al mare.)
In qualcuna di queste soste mi sono successe cose assai bizzarre. Avevo fatto una magnifica picchiata, dalle cime della Serra del Volo (una coincidenza: si chiama realmente così) giù fino alla Fontana Rossa (chissà perché porta questo nome: di rosso, non ha nulla!). L’ho deciso di scatto, all’improvviso, e sono sceso in picchiata. Cari amici, che volo!
A pochi metri dalla fontana, mi sono posato su un muretto. Mi sono seduto. C’era tanta gente. Ma, dall’alto non potevo saperlo perché era nascosta dalle cime dei castagni. C’era più gente del solito. Più o meno, un centinaio di persone. Se ben ricordo. Facevano la coda per riempire bottiglie e orci e grosse taniche con l’acqua della fontana ch’è freschissima d’estate e che sgorga da due tubi d’oro massiccio, distanti d’un paio di metri al di sopra della lunga vasca che serviva agli animali.
Tranquilli, aspettavano il loro turno. Senza quell’impazienza che si ha quando i recipienti di chi ci precede sono tanti o troppo grossi. Cioè, lunghi da riempire. Tutti in fila, tranne tre belle ragazze, sedute vicino a me, sul muretto che corre lungo la strada che scende sinuosa dal paese fino al mare. Leggevano il giornale. Vedo che ogni tanto fanno commenti e ridono forte. La gente che va all’acqua sembra non farci caso. Alle ragazze voglio dire. Questo non mi dispiace. Come le ho viste, mi sono detto che sarebbe stato interessante conoscerle. Eh! se passiamo inosservati, tanto meglio...
Queste belle ragazze dunque, sono vestite all’antica. Camicette bianche e gonne con fiorellini ricamati, sotto i grembiuli color celestino. Quella in mezzo è bruna. Stretta contro la sua spalla, c’è la sua amica, la bionda; sulla destra, pure stretta a lei, una ragazza altrettanto bella, ma dai capelli rossi. Tengono il giornale insieme, aperto a metà. Su una doppia pagina che non si decidono a girare. Commentano e ridono. Intanto, aspetto il momento adatto per parlarci. Non voglio interromperle (sono molto belle, ve lo garantisco; gradevoli da guardare con discrezione).
La cosa dura. Ed io, devo partire, volare al mare (mi trovo ancora a metà volo). Mi sembra d’aver fatto un piccolo sforzo, piacevole, per alzarmi senza che se ne accorgano. Silenzioso, mi poso su un grosso ramo di castagno che si trova giusto sopra le tre meravigliose lettrici. Da là, vedo bene queste belle signorine che ogni tanto scoppiano a ridere. Voglio sapere cosa stanno osservando sul giornale, di tanto divertente. (Me lo sono chiesto a lungo, prima di volare sul ramo.) Finalmente, riesco a vedere quello che stanno guardando da un pezzo. (Adesso che annoto, mi pare che la scena col giornale è durata, più o meno, un’ora.)
Resto sbalordito! Le tre belle, delle quali non conosco il nome, stanno osservando l’immagine con la pubblicità del telefonino... (Ve ne ricordate?) Si tratta dello stesso numero implicato nel sogno precedente. (La Repubblica, la doppia pagina, nel numero del 18 aprile 2006.)
Guardo senza crederci. Ma, vedo bene che è lo stesso numero. La data è quella! L’immagina è identica. Col telefonino... (Mi resta il dubbio: si tratta di un telefonino?) Sotto il costume da bagno, teso sopra la natica. Quella natica col costume da bagno sulla pagina a sinistra, è la stessa (come in uno specchio). Ma nuda, sulla pagina a destra. Il tutto, cioè le due natiche, in primo piano.
Se fossi stato sveglio sarei cascato dal ramo. Ne sono sicuro.
Com’è possibile, mi chiedo, sognando, che possano leggere quel numero non ancora stampato? (Dato che questa scena l’ho sognata sei mesi prima.) Forse, penso, l’immagine pubblicitaria è già stata utilizzata in numeri precedenti? (La data, ogni volta che controllo, è quella.)
Sto così, imbarazzato, quando le mie signorine, la rossa, la bruna e la bionda, smettono di ridere e guardano, di scatto, verso di me. Sopra di loro. Divento un po’ rosso, lo ammetto. Come se nel sogno fossi ritornato quel ragazzino timido che arrossisce quando incrocia lo sguardo d’una ragazza.
Si mettono a ridere. Esclamano, insieme: “Guarda, sul ramo c’è un pollo!” Non capisco, subito, che parlano di me. Mi guardo intorno. Di polli, sui castagni, niente. Nemmeno l’ombra. Non ce n’è.
Allora, ho capito. Dopo questo attimo di smarrimento sognato. Indicano me! Ridono, rumorosamente, mostrandomi con le braccia tese. Mi dico: “Le lascio qui, e ritorno prossimamente. A piedi! Così, non ci troveranno più nulla di strano. Non mi prenderanno più, per un gallo!” Con questa precisa idea in testa, convinto che le avrei rivedute (forse mi ero lievemente innamorato? - sentimento che forse ho un po’ risentito nel sogno), m’alzo in volo. Qualche colpo di braccia e mi trovo nel cielo azzurro. Le ragazze e la gente sono ormai nascosti dagli alberi.
Se fossi stato sveglio, avrei continuato a riflettere su tante stranezze. Soprattutto sulla data del giornale. Sulla data impossibile. Ma dormivo. (Decisamente, i sogni non riesco a spiegarmeli bene. Se mai fossero spiegabili...)
In picchiata, verso il mare. Mentre mi sono già dimenticato delle tre graziose lettrici che m’hanno fatto arrossire. Volo come una freccia, con l’aria fresca che m’accarezzava il viso. Lontano, all’orizzonte, intravedo la lunga curva blu dell’orizzonte che sottolinea l’immenso arco di cielo, più chiaro. Giù, dove finiscono le terre, distinguo la striscia di sabbia che succede al verde intenso degli aranceti, assiepati sul litorale. Nel frattempo, volo sopra gli uliveti che coprono le colline sul magnifico golfo.
Non so quanto tempo dopo essere volato via dalla fontana, né perché decido di posarmi in uno dei paesi albanesi di questa zona. Mi poso a S. Demetrio Corone, dove sono stato qualche volta, da sveglio. Giù in picchiata fino alla piazzetta principale. Mi poso a lato del busto di Scanderbeg. C’è pieno di gente. Le signore anziane sono vestite coi loro splendidi vestiti tradizionali. Di fronte all’eroe s’erge, sontuosa, la fantastica Sagrada Familia di Gaudi. Con l’incredibile Facciata della Natività.
Lì davanti, vedo tre bancarelle su cui sono disposte tante bacinelle quadrate. Con un colpetto d’ali m’avvicino. Si tratta di pesci, in salamoia. Gli stessi, mi pare, che nel sogno già annotato. Le tre belle signorine sono sedute su un banco pubblico, sotto un albero (un arancio carico di frutti, mi pare) e tengono tra le mani il giornale. A questo punto, non so perché, mi vengono in mente pensieri che mi appaiono, ancora adesso che sono sveglio, discordanti. Discordanti col luogo, e tra loro. (Me li appunto.) So, di certo, che il cielo si oscurò per un attimo, lasciandomi vedere la Costellazione del Carro. Brillava come mai l’avevo notata. Da sveglio. (...)

- Altrisogni II

Rifece subito giorno. Come quando si accende la luce schiacciando il bottone. La piazzetta fu allora invasa da due squadre di musicisti che cominciarono a giocare al calcio. Con gli strumenti in mano. Con magliette e pantaloncini e calzettoni... si trattava di veri calciatori insomma, che suonavano e giocavano. (In vita mia, ho visto, alla televisione, qualche partita di calcio; ed una sola volta dal vivo, a Pisa, per la serie C. Senza contare le due o tre partite della Seconda divisione e quelle, molto più importanti, le rionali. Ma, come questa sognata, che annoto adesso, mai, ve lo assicuro)
Tiravano calci in ventidue palloni. Ognuno aveva il suo, compresi i portieri. Quando facevano goal, si fermavano e suonavano gli strumenti. C’era finanche la grancassa. Il calciatore che la suona la trasporta con facilità, e fa più reti degli altri. Suonavano motivi conosciuti ed altri per me sconosciuti. Ricordo che c’erano anche musiche celtiche, oltre la tarantella e la samba. E tante altre, talmente strane, che non so proprio come descriverle. Lo ricordo bene, tutto questo. Non saprei, inoltre, dire di che squadre si trattasse. Poiché nessuna squadra scende in campo con questi strumenti. Oltre le magliette che erano diverse anche tra giocatori della stessa squadra, pure i palloni erano differenti. Ad esempio, ce n'erano due coi colori delle coccinelle. Rossi con le macchioline nere, mi sembra. Quando venivano calciati alti, si mettevano a volare. Per andare in rete. Cosa che successe tre o quattro volte, se non sbaglio. Per quanto concerne il terreno di gioco (se possiamo definirlo tale): una delle porte si trovava davanti al busto dell’eroe /Scanderbeg/ e, l’altra, dieci metri più lontana, davanti alle bancarelle coi pesci. L’arbitro: ce n’era uno; suonava la batteria ed era posizionato davanti alla fantastica porta della Sagrada Familia di Gaudi.
Intanto, la bionda, la rossa e la bruna, s’interessavano unicamente al giornale. Ma, ogni tanto, mi davano un’occhiatina. Mi sorridevano, credo. (Mi sembra che mi mandarono perfino tre lievissimi baci, soffiandoli dalle mani aperte.)
Mi domando: questi strani e rumorosi giocatori cominciarono a disturbarmi? (Me lo chiedo giacché non so se si trattasse, realmente, di fastidio.) Comunque sia, mi decido e chiedo aiuto al Piccolo Principe. Gli domando: “Come faccio a volar via?” Il piccolo personaggio mi fa un’alzata di spalle. Come per dirmi (lo immaginavo sognando, beninteso): “Cosa vuoi che ti dica? Sono sul Quinto pianeta e rifletto sul perché e sul percome di questo lampione. Scusami tanto, ma non so proprio che dirti! Non posso pensare due cose alla volta, tanto complicate!” Non ti preoccupare, gli rispondo tra me e me. E lo saluto, dicendogli “Ciao!” E lui, pronto: “Ci vediamo!” Dicendomelo, i giocatori-musicisti scompaiono. Chissà dove.
Rifà buio (ma chi è che accende e spegne la luce?!). Vicino alla Costellazione del Carro, vedo un piccolissimo pianeta con sopra un minuscolo lampione che spande, nello spazio infinito, una fiochissima luce. Nel frattempo, passa una gran bella cometa. Ha una lunga coda che sprigiona miriadi di scintille che si trasformano in strani insetti dorati. In strane farfalle, per essere più precisi. Faccio segno verso il Quinto pianeta. Mi pare che s’illumina improvvisamente, come un piccolo sole.
Rifà giorno. Sedute al posto delle ragazze ci sono tre vecchiette. Ricamano orletti a tre camicette bianche. Ogni tanto guardano verso di me. Con aria assai preoccupata. Una, mi fa segno d’avvicinarmi. Somiglia alla regina d’Inghilterra. Stesso viso sorridente. Ma senza corona. Né cappelli. Mi parla in italiano. Gli rispondo in inglese. Ci capiamo poiché conosciamo queste lingue (il Piccolo Principe mi aveva parlato in francese. Con un forte accento napoletano!). Mi domanda che faccio là, cosa cerco. Le due amiche (le tre anziane hanno capelli argentati ed una certa aria di Fata Turchina), seguono con attenzione la conversazione. Ogni tanto annuiscono, sorridendomi.
Mi metto a dire che volo verso il mare. Per andarmi a prendere un bagno perché fa troppo caldo. Racconto l’incontro alla fontana, poco prima, e quella bizzarra storia del telefonino... pubblicizzato nel giornale La Repubblica.
La regina mi dice di non preoccuparmi. Che è una cosa normale, nei sogni. Se si sogna come si deve, i pesci possano nuotare anche fa troppo caldo. Racconto l’incontro alla fontana, poco prima, e quella bizzarra storia del telefonino... pubblicizzato nel giornale La Repubblica.
La regina mi dice di non preoccuparmi. Che è una cosa normale, nei sogni. Se si sogna come si deve, i pesci possano nuotare anche nella salamoia... “Finanche nella salamoia!?” esclamo io. Mi risponde: “E perché no? Cosa c’è di male?”. È successo anche a lei ed alle sue amiche, di sognarne cose simili. Me lo afferma con sovrana autorità. Mi rassicuro. Sono molto contento di sentirmelo dire dalla regina d’Inghilterra.
Adesso che sono sveglio, aggiungo un dettaglio importante. Qualche tempo prima di questo volo al mare, avevo ricevuta una cartolina dalla Gran Bretagna. Con sopra il viso sorridente della regina. Con la corona, la collana, gli orecchini e la spilla, zeppi di pietre preziose. Sono sicuro che questa cartolina (H. M. The Queen c’è scritto, nell’angolo superiore destro), c’entra parecchio con l’incontro sognato. Solamente, l’ho ricevuta in Francia e non in Italia. Ma questo, dev’essere secondario.
La regina fa un segno con lo scettro fosforescente che le appare nella mano destra. Ed ecco che mi trovo di nuovo in alto, nel cielo azzurro. Da là sopra distinguo, appena, lo scintillio degli zaffiri, smeraldi e diamanti di S. M. la regina d’Inghilterra. Dopo d’allora, quando vedo una sua foto, su giornali o riviste, non posso fare a meno di pensare che gli ho parlato. E che lei, con grande gentilezza, m’ha dato qualche buon consiglio sull’importanza dei sogni, soprattutto quando si fanno come si deve.
Di nuovo in picchiata, dopo essere rimasto una decina di minuti immobile, se non di più, a riflettere su quanto m’era successo a S. Demetrio, accanto al busto di Scanderbeg. Di nuovo giù a capofitto, verso il mare che, oramai, s’avvicina velocissimo. Già mi pare di poterlo toccare col naso che, per un attimo, si allunga di quante centinaia di metri.
Mi poso su una barca color blu provenzale. Sulla barca non c’è nessuno. La prima cosa che faccio, è tuffarmi, vestito, nell’acqua azzurra.
Nuoto con calma. Allontanandomi verso il largo. Mi sono messo in testa d’andare dritto fino all’orizzonte per, poi, ritornarmene sulla barca. Ma qui, devo annotarmi una cosa che m’è successa un po’ prima di trovarmi su questa barca. Altrimenti mi scordo.
Mi ero posato assai distante da S. Demetrio, e assopito contro un grosso ulivo. Ad un tratto, apro gli occhi ed assisto ad una scena che annoto con gli stessi versi che mi sono venuti in mente davanti a questo incredibile spettacolo. (Ogni tanto mi capita di comporre poesie sognando; ma, allora, posso dimenticarle facilmente.). La scena è questa (forse, con una certa confusione di tempi e di luoghi). L’ho sognata in dialetto:

Chissu mi capitò ‘na vota, intra Santu Catavudu
scinniennu a’ Cadamu, pe’ mi cogliari i cavudi…
Ammuccieata, tra certi pampinelli ‘e acrudilla,
c’era ‘na cozzameruca chi guardeava ‘nu grillu...
Chi zumpettieava cuntientu, supa ‘i pizzicuorni,
‘ntuornu a ‘s’uocchjuzzi sua, c’assimianu cuorni…
Pe’ ammireari ‘s’acrobatu, rotannu d’uocchjcielli,
ti nni vidi ‘n avutru, sutta ‘nu finocchiellu
Chi steava là, fermu, cu’ ‘n’aria riposeatata,
pecchì ‘s’animadicchiu, s’era già curcheatu!
He’ ‘ntisu ’a cozzameruca, chi l’ha apostrofeatu:
“Fratta ‘un sta meai quietu, e tu si’ addormenteatu?”
Ci sugnu rimastu, ‘e stuccu, troppu affascineatu,
senza m’accorgiari, ‘e da notta orameai cadeata...
‘I cudiduci, pe’ m’alluciari s’eranu frattantu appicceati,
cumu pe’ diri: “‘E di cavudi, ti nni si’ scordeatu?”
Sutta ‘su muriciellu, quanti n’heaiu sonneati,
‘e ‘si grilli vizzarri chi duorminu tuttu ‘a jurneata…

Confusione di luoghi e di tempi dicevo. Questa poesiella*, coi grilli e la lumaca, l’avevo già sognata anni fa. È una di quelle poche che riesco a ripetere a memoria. La prima volta che l’ho sognata m’era successo addormentandomi sotto un muretto, nella campagna non lontano da casa. Andavo a raccogliere cavoli, nell’orto dei nonni. Il paesaggio era rigoglioso, verde. Ma questo, non penso che abbia un’importanza particolare. In breve, la lumaca ed i grilli sono ritornati. Nel senso che ho sognato la stessa scenetta. (Certi sogni sono ciclici. Devo approfondire questo aspetto che può riguardare la poesia anche dal punto di vista della creazione notturna; e forse, perfino come possibilità poetica delle realtà sognate. -
Nuoto. Faccio un’immersione qui, e una là; delle pause mentre mi dirigo dritto verso l’orizzonte. Scendo cento metri sotto la superficie, quando, senza aspettarmelo, chi ti vedo? Beh, vedo Pinocchio. Proprio lui! Col naso a posto. Sta seduto nella bocca, enorme, della balena. Con la mano, mi fa segno d’allontanarmi. Gli domando allo stesso modo (gestualmente quindi): “E perché?” E lui, insistendo: “Allontanati! Scappa via!”
Finalmente, dopa avere esitato, forse per una mezz’oretta (quanto si può essere duri di testa, a volte! Senza contare che fui costretto a trattenere il respiro), finalmente capisco che vuole evitare che la balena ingoi pure me. Lo ringrazio, e via! Risalgo in superficie. Adesso che l’annoto, mi sembra strano che il grande mammifero non abbia nemmeno accennato a nuotarmi dietro, per acchiapparmi e mangiarmi. Stava dormendo? (Questo spiegherebbe, secondo me, che Pinocchio si sia potuto affacciare così a lungo. Ma allora, perché non ne ha approfittato per squagliarsela?)
L’ho scampata bella. Chissà se avrei potuto salvarmi in compagnia del burattino. (Il futuro può darsi per scontato da svegli, certo: ma, quando si dorme, è tutta un’altra storia.) Stando in superficie, continuo a guardare giù, nelle profondità marine. Non si sa mai. Ma, convinto che s’era allontanata, ricomincio a nuotare, con maggiore lena.
Mi sono un po’ stancato (cosa rara nei miei sogni, dicevo). Mi metto a fare il morto. Guardo il cielo, e vedo passare qualche nuvoletta. Poi, una decina di aironi; qualche mucca, un motocarro giallo con una sola ruota, due giraffe rosse, un gruppo di elefanti con la maglietta del Milan (!), una 500 FIAT* arancione con dentro l’arbitro, un rinoceronte con due corna smisurate, davanti e dietro; centinaia di pesci; centinaia di polli. Tre aquile. Una con il collo bianco, una con il collo bruno, e la terza con il collo rosso. (Ricordo di averci fatto poco caso.) Subito dopo, meno alti nel cielo, passano due carovane, di cammelli e di dromedari (nel deserto: il cielo ne prende i colori, per un istante) che vanno in direzione opposte, su piste appena percettibili. Passa anche un autobus carico di giocatori di calcio, da dove provengono note conosciute ed altre particolarmente bizzarre, che non saprei descrivere. (Suoni dominati dai colpi sulla grancassa.) Quindi, una Rolls, lussuosissima, con la regina d’Inghilterra (mi fa un gesto sporgendosi dal finestrino). Passa pure una cattedra volante col mio più simpatico maestro che, alle elementari, dormiva a bocca aperta mentre noi scolari uscivamo dall’aula per andare a giocare a pallone davanti alla scuola. Dietro, ecco una cartolina svolazzante, con Parigi; una bella cartolina con la Torre, grande come una tovaglia da pranzo: quella di Biancaneve (che intravedo) quando pranza con i Sette Nani (assenti?). E tante altre persone e cose che sarebbe troppo lungo da raccontare. (M’accontento di quelle che m’hanno maggiormente impressionato.)
Nuoto felice, nel Mediterraneo. Arrivo all’orizzonte e, per una volta, mi sento talmente stanco (stanchezza che mi si abbatté addosso all’improvviso), talmente stanco, dico, che stavo per affogare. Sto andando giù. Nella bocca della balena? (Questo sì, che è un incubo! Mi ripeto mentre sprofondo.)
Mi salvano tre bellissime sirene. Mi prendono per le ali (o le pinne?), ormai inerti. (Avevo volato troppo? Anche se, dicevo, non mi era mai capitato di stancarmi, volando. Ma là, è vero, stavo veramente nuotando.). Tra le onde, sono circondato dalle tre meravigliose salvatrici che, sorridendomi, m’incoraggiano.
Mi fanno massaggi alle ali (o alle pinne?). Noto, senza darci troppa importanza, che hanno i capelli di diverso colore: rossi, bruni, e biondi. I visi sono gli stessi di quelli delle signorine incontrate presso la fontana. Arrossisco leggermente. (Non si trattava, di certo, d’un sogno estremamente eccitante, in quelle condizioni. L’eccitazione, se posso definirla così, era etica piuttosto che fisica. Non so se mi seguite.) Finalmente, m’accompagnano, ridendo e scherzando, fino alla barca. Sono incantato dalla situazione. Dalle mie brave e buone sirene, tanto diverse da quelle di Ulisse tra Scilla e Cariddi;
Mi spingono sulla barca dopo avermi dato un bacio ciascuna, sulle guance. E se ne ritornano, chissà dove. Contento, mi sdraio sul fondo della barca e m’addormento, mentre il sole comincia a passare dietro l’orizzonte. Il tramonto è stupendo. Riprendo a sognare. Devo dormire come un ghiro, quando, ad un tratto, sento che mi stanno scuotendo una spalla. Come per dirmi: “Su, svegliati!” Chi mi scuote? Il Piccolo Principe che, poi, riparte sulla scintillante cometa. Ormai sono sveglio e ben sveglio. Spunta l’alba. Il mare è sconvolto da onde gigantesche. Ben presto, la barca si capovolge. Non faccio in tempo a gridare aiuto che le mie belle sirene sono già accorse. Seguite da migliaia di pesci, d’ogni specie. Da parecchi delfini e da una grossa balena che spruzza.
Il mare s’è trasformato in immensa bacinella, riempita di salamoia (eh! per un lago sarebbe più difficile, dato ch’è riempito d’acqua dolce!) Mi spingono sulla riva. Verso Metaponto o verso Copacabana? Non ho tempo per pensarci. Mi dicono: “A presto!” E scompaiono, chissà dove. Sulla spiaggia, c’è Pinocchio, sempre lo stesso, trasformato in ciuchino (so che è lui perché avevo letto il libro con attenzione). Sta per essere gettato in acqua. Affogato dal compratore che ne vuole recuperare la pelle per fare il tamburo. Intervengo con decisione. Glielo do io il tamburo, a questo criminale! Voglio dargli un pugno sul naso! Ma, Collodi appare e mi dice con aria preoccupata: “Se intervieni così, adesso, io come faccio a terminare la storia che ho in testa?”
“Signor Collodi, avete ragione! - gli rispondo cortesemente - se lo salvo ora, poi non vi potrò più leggere come ho fatto prima!” - “Bravo! - mi complimenta l’autore del burattino più indisciplinato del mondo - hai capito tutto! Ma, dimmi un po’, cosa ci fai qui, a quest’ora? Da dove vieni?” (Non sa, non potendolo, che il suo discolo di legno m’ha salvato dalla balena. Ed io, ho appena dimenticato, annotando, se fosse l’alba quando Pinocchio rischiò grosso; cioè, d’essere salvato da me.)
Mi pare che s’è rifatto giorno di colpo. La spiaggia col ciuchino è scomparsa, come per magia. Come se stessi realmente sognando. (Sogno o son desto? Me lo domandavo oppure me lo domando solo adesso?.) Mi metto a riflettere, ma non a lungo. Do, quindi, un paio di vigorosi colpi d’ala (d’ala?) e salgo su, nel cielo azzurro. Sopra il Golfo di Sibari. Vedo le cime arrotondate del Pollino e, poco più in là, quelle del Monte Bianco. C’è tanta neve dappertutto, che scintilla sotto il sole del Mezzogiorno. C’è pieno di sciatori che salgono e scendono, a cavallo delle loro biciclette. C’è pure un asino. Ma lui, scende normalmente. Con gli sci per terra. Cioè, sulla neve (ne ha quattro naturalmente).
Guardo ad Est. Scorgo Itaca. Volo subito là, per vedere se Ulisse è arrivato. Non ancora. Penelope sta scucendo la tela (di giorno!?). La scena cambia. Ulisse tira con l’arco. Un vecchio cane che sembrava morto, si alza. Prendo a Sud, fino alle Grandi Piramidi. Mi siedo sulla più alta. Guardo giù e vedo passare una carovana di cammelli e di dromedari guidati da un faraone tutto sudato che si ferma e tira fuori una bottiglia d’acqua minerale S. Pellegrino. In cima ad una delle piramidi (la più piccola) c’è Cleopatra che mi fa un gesto amichevole. Come per dirmi: “Benvenuto in Egitto!”. Ma poi, mi schernisce! Mettendosi il pollice della mano aperta sul suo famoso naso. - “Incredibile!” (Esclamo, sognandola.)
Riparto. (Sulla terza piramide c’era la regina d’Inghilterra, ma non mi vedeva; stava facendo la maglia per il figlio; per il principe che aspetta di diventare re.). Volo e volo e, finalmente, rientro a casa. Penso: “Uff! Per stanotte, ho sognato abbastanza! Mi metto a letto. Ne ho veramente bisogno!”
Stamattina, finalmente, li ho annotati come si deve. (Avrei dovuto farlo prima. Mesi fa. Ci avrei guadagnato, riguardo alla precisione.) Adesso, questi sogni, anche se in parte sfumati, non li dimenticherò più. Se mi viene in mente qualche altro dettaglio, importante, lo aggiungerò un’altra volta. Tranquillamente. Altrimenti, va a finire che riportandone troppi, li confondo tutti. Correndo il rischio (ancora più importante) di confondere, completamente, sogni e realtà. Sarebbe il colmo. Dato che è la realtà che può, che potrebbe servirmi nel futuro: in qualche futuro tentativo di comprensione dei miei sogni. Benché, come dicevo, non ci creda affatto. Ma, non fosse altro che per curiosità, tentarne una critica, razionale beninteso, continuando a sognare, mi pare missione impossibile. Meno male che me ne rendo conto. A conferma che quando li annoto sono completamente sveglio. Presente a me stesso. Perfettamente cosciente. Altro che ABC dei sogni, altro che significati reconditi! Per me, si tratta di associazioni oniriche puramente casuali. Fini a sè stessi. (Tranne quando li annotiamo per riviverli sotto forma di semplici ricordi un po’ più bizzarri del solito.)
L’altro sogno è molto più breve. Durò un attimo.

- Sogno informatico

Sono seduto davanti un sofisticatissimo PC. Ultimo modello. Provvisto di larghe antenne paraboliche. A forma d’orecchi. Al centro, in basso, c’è la bocca. Piena di bottoni. Ha due schermi a forma di occhi. Sa parlare decine di lingue.
Mi sembra che gli manca il naso. Quanto intravedo sotto la tavola dov’è posato, a lato d’un mazzo di rose bianche e rosse (dentro un vaso che sembra di cristallo), non mi convince sul fatto che possa trattarsi di veri e propri piedi. Guardo meglio, abbassandomi. La visione resta vaga.
Decido di cliccare su una delle rose che intanto sono finite sugli schermi. Le rosse su quello di sinistra e le bianche a destra. Clicco sulle rosse che si sono messe a lampeggiare, come se lanciassero SOS.
Pinocchio, su un asino tirato da Geppetto, ordina al Gatto ed alla Volpe di scomparire (il tono è imperativo). E di non mettere più una sola zampa nel racconto del suo creatore. Detto fatto, scompaiono. Chissà dove. Ma ecco che appare la Fata Turchina, sulla carrozza. È bellissima, come nel film di Benigni. Roberto gli è seduto accanto. Saltella, si agita per dirmi: “Oh ‘he tu fai? Sali un po’ su ‘on ‘oi!” Non faccio in tempo. Il virus XYXY (sugli occhi, le due lettere sono enormi) interviene nel computer. La scena s’imbroglia, tanto da non potersi più descrivere facilmente. Provvedo con un anti virus potentissimo: il VR232STOP! Pinocchio appare e scompare, appare e scompare. Ragazzetto e burattino. Burattino e ragazzetto... (Una buona decina di volte.)
L’anti virus non ne vuole sapere. Meno male, ci pensa la Fata Turchina! Un colpo di bacchetta magica (si mette a scintillare), e al virus XYXY, che ha preso le sembianze di Mangiafoco, nasce un grosso bernoccolo sulla testa. Grosso come una zucca. Saltellando come meglio può, visto le dimensioni del bernoccolo (e dell’enorme pancione), scappa via. Strillando come una sirena dei pompieri parigini. “Poverino, che botta!” (Penso io mentre dormo. Beato.)
Salto sull’asino. Stranamente, Pinocchio si trova, adesso, sulla carrozza. Con Roberto Benigni e la Fata Turchina, Biancaneve ed i Sette Nani, Cenerentola, Pulcinella, Arlecchino e Colombina; e cento altri personaggi, fra cui S. M. la regina d’Inghilterra con H. P. (il maghetto).
Sulla testa dell’asino (tiene le orecchie girate in opposta direzione, come quello di Vincenzo Padula? Mi chiedo) ci sono due piccoli schermi. Simili a quelli del mio nuovo PC. Clicco sul collo. Sulla criniera, dove c’è una tastiera a forma di... di collo! All’asino spuntano le ali. Stavolta, penso, non sarò solo, a volare. Riclicco. Ci troviamo alti nel cielo.
Nell’azzurro, dopo un momento d’esitazione, clicco su un bottoncino (piccolo piccolo, come una specie di microtelecamera chirurgica) che si trova all’estremità d’un crine. L’asinello raglia come se ridesse (l’ho solleticato?). E poi mi fa, serio come un filosofo kantiano sempre serio: “Chi siamo? Dove andiamo?” Etc.) Ci rifletto. Pensando come un non kantiano (e non sempre serio) che non smetterebbe di domandarsi, quando non dorme: “Già, chi siamo? Donde vamos? Y che ci vamos a fare?”
Decidi tu, gli clicco. Parte come una freccia. Mi porta sulla Luna. Guardo se caso mai ci fosse il Piccolo Principe, perché gli vorrei chiedere non so più che cosa. Ma non c’è. Vedo, però, uno strano robot a sette zampe che, avanzando all'incontrario (?) tra i sassi lunari, fa il fotografo. Si gira e ne fa una pure a noi. L’asino mi dice: ”Domani, siamo sui giornali!”
Riclicco. Riparte come un lampo. Durante il viaggio nello spazio (non capisco dove stiamo andando), clicco su “www.Fontana Rossa.com”. E subito, ci posiamo vicino alla fontana. Tutto sembra tranquillo. Le tre signorine sono sempre lì. Ne sono contento. L’asinello non la smette di ridere ragliando. Gli dico: “Se continui a fare il comico, chissà cosa penserà di noi, la gente seria!”
Non m’ascolta. Le tre lettrici, comunque, non ne sono infastidite. Anzi, ci lanciano tre sorrisi smaglianti, pubblicitari. La folla, continua a riempire le bottiglie e gli orci. La bionda, la rossa e la bruna, s’alzano e ci raggiungono. Scendo dall’asino che se ne vola sopra il ramo, dove m’ero posato nei sogni precedenti. Mi danno tre baci sulle guance, e mi dicono: “Dai, vieni al mare! Andiamo a farci un bagno!” Rispondo, preoccupato: “E l’asino?” - E loro: “Non ci pensare, ritorna nel libro!”
Questa volta, siamo in quattro a sbattere le ali (le ali?). Voliamo dritti verso il mare. Passiamo sopra la Sagrada Familia di Gaudi, sopra S. Demetrio, senza fermarci. Eccoci sulla spiaggia, sotto l’ombrellone arcobaleno. Fa un caldo...
Mi spalmano la crema. Mi sento bene. Immaginatevi, voi, al posto mio. Con queste tre incantevoli creature. Nude come mamma l’ha fatte! (Mi domando, adesso che sono sveglio e sto annotando quest’altro sogno: “Il numero 3, giacché sono sempre in tre loro, ha un significato particolare?” Non ricordo più se è questo il Numero Perfetto. Uhm, no, dovrebbe essere il 7. Dovrò controllare.) Prendiamo un bagno ch’è una bellezza. Nuotiamo insieme, felici, verso l’orizzonte.
Si ripete, quasi identica, la scena del sogno precedente, dove incontro la balena con Pinocchio in bocca e le tre Sirene. Dove ho rischiato di affogare. Adesso, mi sembra che tutto è successo più velocemente; durante l’attimo in cui le tre belle signorine pubblicitarie scomparvero. Di nuovo, intervengono le Sirene che, invece di portarmi sulla barca, m’accompagnano dalle mie amiche senza coda (ma con certe gambe!), giunte all’orizzonte (mi stavano aspettando, ero rimasto indietro). Ci spruzziamo l’acqua addosso. Loro, come dicevo, sono nude. Io, invece, ho un bel costume da bagno, con ricami a forma di chitarre, di sax, e di mandolini (sono uno organizzato).
Finalmente, in compagnia di cento delfini e della balena che spruzza (ci fanno da scorta, insieme alle tre Sirene), ritroviamo la spiaggia. Balena, Delfini e Sirene si trasformano in schiuma argentata che se ne va verso il largo. Chissà dove.
Ci sdraiamo sulle tovaglie blu provenzale. Sotto l’ombrellone. Là sotto, continuo ad abbronzare (!). Ne sono sicuro, considerando com’ero pallido ieri sera. Voglio dire: stamattina, mentre annoto questo sogno, si direbbe che ho passato un intero mese di vacanze al mare!
Mi sembra che mi sto un po’ innamorando. Delle mie tre amiche che, intanto, si sono messe a leggere La Repubblica.
Mano mano, cominciano a coprirsi di articoli (ohi ohi ohi!). Di parole che le accarezzano, scorrendo piano piano lungo i bellissimi corpi pubblicizzati, mentre telefonano. Chissà a chi. (Ne approfitto per rileggerne uno di Pietro Citati: certe sue riflessioni sul mare incantevole della sua infanzia. Un articolo di qualche anno fa, mi pare.)
Fa veramente caldo... Abbiamo sete... Ci dirigiamo, a braccetto, verso la grande casa tra i pini, con le finestre blu. (Non so, ancora adesso, a chi può appartenere. Ho degli amici in Provenza ma le loro finestre non sono blu!)
Nella cucina, sul tavolo, c’è un vaso di cristallo (o di vetro?). Con un magnifico mazzo di rose bianche e rosse.
La bruna, la rossa e la bionda, sospirano. Esclamano: Stiamo morendo di sete!”
Tiro la maniglia del frigorifero. Prendo il succo di arance sanguine di Sicilia e riempio quattro bicchieri.
Uff! Finalmente!
Mi sveglio. Con una sete che non vi dico... (...)
--- (CONTINUA) -

Prossimamente (?) l’Ultimosogno ("Dislocazione sonnambula"). Il più lungo... Sempre da STRANISOGNI. (Ninnillo)

Anonimo ha detto...

Cara Redazione... meglio toglierli tutti e due i commenti precedenti. Non so cosa sia successo, ma c'è ancora qualche frase "mezza doppia". Riprendo, allora, solo l'inizio, riguardante l'articolo "Il padrone della tabacchiera".
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Molto bello ed interessante l'articolo di Antonio Tabucchi! L'avevo già letto; ed anche nella sua traduzione francese apparsa con altri suoi articoli su "Le Monde". E' un autore che mi piace molto. Una volta, anni fa, in una famosa emissione letteraria, sempre in Francia, fu intervistato da Bernard Pivot (conduce programmi famosi, sulla letteratura e l'arte). Fu divertentissimo (ebbe il privilegio di essere intervistato da solo, come un Grande......), mentre parlava di letteratura (e della politica italiana...), facendo com'è sua abitudine... qualche riferimento a Fernando Pessoa (una "miniera piena di pepite d'oro" che leggo sempre molto volentieri: libri ed articoli: gli uni più interessanti degli altri: non so se, ad esempio, avete letto quanto scrissi tra gli anni venti e trenta... sulle caratteristiche del provincialismo portoghese o più in generale: dicendo, tra l'altro, che gli intellettuali provinciali fanno prova di mancanza d'ironia, o di un entusiasmo eccessivo per il Nuovo, etc.; o ancora, il suo famoso "O banqueiro anarquista", Il banchiere anarchico - uno dei suoi "esercizi di deduzione" - apparso nella rivista "Contemporarea nel 1922)... Ehm, dove eravamo restati? Ah, facendo riferimento a Fernando Pessoa, Tabucchi non la smetteva di grattucchiarsi il viso, le orecchie, il naso, più altre contorsioni sulla poltrona dov'era "seduto"! Uno spasso assoluto mentre diceva mille cose interessanti...
Ritornando all'articolo: molto bello e profondo quanto scrive sulle motivazioni della scrittura, sul perché si scrive...
In breve, trovo ottima l'idea di proporre questo genere di articoli sul Blog dei Pirati & Corsari... che navigano a Gonfievele, contro corrente...

Anonimo ha detto...

Altrimenti, possiamo fare cosi: siccome alla fine dei primi due commenti di sopra si annuncia il seguito: una "DISLOCAZIONE SONNANBULA", le dislocazioni di ieri, di stanotte, essendo già abbastanza addormentate, e dislocate per via di una pagina che si era raddoppiata nel primo commento e caparbiamente in parte un po' "raddoppiata" nel secondo (malgrado la tentata "estrazione" del superfluo del primo... eccetera), tanto vale togliere solamente il primo commento. Poiché nel secondo, tutto fila quasi liscio: tranne una frase di cinque o sei righe. Mi dicevo: se qualcuno la trova, tombola! (gli regaliamo un sacchetto di confetti! Eh!)
Altrimenti, qui sopra, nel terzo commento, la frase tra parentesi dove c'è scritto tra parentesi: una "miniera piena di pepite d'oro" che è mia, contiene uno sbaglio: va letto "avete letto quanto scrisse..." e non "quanto scrissi...": sto parlando, infatti, di quanto scrisse Pessoa...
Mi sarebbe piaciuto approfondire a proposito di questa storia... del Nuovo e della mancanza di ironia...
(ed altro che dice sulla Scienza.. e lo spirito scientifico... il che ci riallaccia all'inizio dell'articolo di Tabucchi, là dove cita Roland Barthes...)
Devo riprendere la sua raccolta di scritti e, magari, quanto prima, tradurne certi brevi passaggi...

Anonimo ha detto...

Estratti dal buon art. su wikipedia:
Fernando António Nogueira Pessoa (Lisbona, 13 giugno 1888 – Lisbona, 30 novembre 1935) è stato un poeta e scrittore portoghese. È considerato uno dei maggiori poeti di lingua portoghese, e per il suo valore è comparato a Camões. Il critico letterario Harold Bloom lo definì, accanto a Pablo Neruda, il poeta più rappresentativo del XX secolo.
Avendo vissuto la maggior parte della sua giovinezza in Sudafrica, la lingua inglese giocò un ruolo fondamentale nella sua vita, tanto che traduceva, lavorava, scriveva, studiava e perfino pensava in inglese. Visse una vita discreta, trovando espressione nel giornalismo, nella pubblicità, nel commercio e, principalmente, nella letteratura, in cui si scompose in varie altre personalità, note come eteronimi. La sua figura enigmatica interessa gran parte degli studi sulla sua vita e opera, oltre ad essere il maggior autore della eteronomia.
CITAZIONE:
– “[...] Ricordo, così, quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia.”

Si può dire che la vita del poeta fu dedicata a creare, e che con questa creazione, creò altre vite attraverso i suoi eteronimi. Questo è stata la sua principale caratteristica, e il motivo di interesse per la sua persona, apparentemente così pacata. Alcuni critici si chiedono se Pessoa abbia realmente fatto trasparire il suo "io" reale, o se questo non fosse un altro prodotto della sua fertile creatività. Quando tratta temi soggettivi e quando usa l'eteronimia, Pessoa diviene enigmatico fino all'estremo. Questo particolare aspetto è quello che muove gran parte delle ricerche sulla sua opera. Il poeta e critico brasiliano Frederico Barbosa dichiara che Fernando Pessoa fu «l'enigma in persona» (purtroppo il sottile gioco di parole va perso nella traduzione, perché in portoghese "pessoa" significa "persona"). Scrisse da sempre, partendo dal primo poema all'età di 7 anni fino al letto di morte. Aveva a cuore l'intelletto dell'uomo, giungendo a dire che la sua vita era stata una costante divulgazione della lingua portoghese; nelle parole del poeta riportate per bocca dell'eteronimo Bernardo Soares «la mia patria è la lingua portoghese». Oppure, attraverso un poema:
Su Pessoa il poeta messicano premio Nobel per la letteratura Octavio Paz dice che «il poeta non ha biografia: la sua opera è la sua biografia», e inoltre che «niente nella sua vita è sorprendente – nulla, eccetto i suoi poemi». Il critico letterario statunitense Harold Bloom lo considerò il poeta più rappresentativo del XX secolo assieme al cileno Pablo Neruda.
In occasione del centesimo anniversario della nascita il suo corpo è stato traslato, come un eroe nazionale, nel Monastero dei Jerónimos a Lisbona, vicino ai cenotafi di Camões La grande creazione estetica di Pessoa è considerata l'invenzione degli eteronimi, che attraversa tutta la sua vita. A differenza degli pseudonimi, gli eteronimi sono personalità poetiche complete: identità che, inizialmente inventate, divengono autentiche attraverso la loro personale attività artistica, diversa e distinta da quella dell'autore originale. Fra gli eteronimi si trova lo stesso Fernando Pessoa, in questo caso chiamato ortonimo, che però sembra sempre più simile agli altri con la loro maturazione poetica. I tre eteronomi più noti, quelli con la maggiore opera poetica sono Álvaro de Campos, Ricardo Reis e Alberto Caeiro.
Un quarto eteronimo di grande importanza nell'opera di Pessoa è Bernardo Soares, autore del Livro do desassossego (Libro dell'inquietudine). Soares è talvolta considerato un semi-eteronimo, a causa delle notevoli somiglianze con Pessoa, e per non aver sviluppato una personalità molto caratterizzata.
Al contrario, i primi tre possiedono addirittura una data di nascita e di morte, quest'ultima ad l'eccezione di Ricardo Reis. Proprio questo dettaglio venne sfruttato dal premio Nobel per la letteratura José Saramago per scrivere il libro L'anno della morte di Ricardo Reis.
Attraverso gli eteronimi, Pessoa condusse una profonda riflessione sulle relazioni che intercorrono fra verità, esistenza e identità. Quest'ultimo aspetto è notevole nell'aura di mistero che circondava il poeta.
CITAZIONE:
“Com uma tal falta de gente coexistível, como há hoje, que pode um homem de sensibilidade fazer senão inventar os seus amigos, ou quando menos, os seus companheiros de espírito? - Con una tale mancanza di gente coesistibile come c'è oggi, cosa può fare un uomo di sensibilità, se non inventare i suoi amici, o quanto meno, i suoi compagni di spirito?”

L'opera principale del "Pessoa-sè-stesso" è "Mensagem" ("Messaggio"), una raccolta di poemi sui grandi personaggi storici portoghesi. Il libro fu inoltre l'unico pubblicato in vita dall'autore.

Anonimo ha detto...

A proposito di letteratura: ho il piacere di annunciarvi che in Francia è stato pubblicato il secondo romanzo di Luigi Algieri: STORIE DELL'ALTO MONDO. Si tratta del secondo "episodio" della "Storia di Altopiano" (dopo quello pubblicato nell'ottobre scorso: ALTOPIANO: disponibile nelle migliori librerie).
Ritroviamo le comari ed i compari. Negli anni venti...
Si puo' fare richiesta di questo nuovo libro rivolgendosi all'autore, o al sottoscritto. Il prezzo, da amici, è di 7.50 Euro più spese di spedizione = 10 Euro.
J.xck

Anonimo ha detto...

J.xck, prendo ora conoscenza della pubblicazione di questo libro. Avevo letto il primo romanzo del nostro amico Ninnillo e mi era piaciuto. Quante risate!
Mettetene da parte cinque copie che provvedo a farvi avere 50 euro.
A presto, Antonio F.

Anonimo ha detto...

(ANSIA) - TEHERAN, 10 MAR - Un marito iraniano che ha abbandonato la moglie e' stato condannato da un giudice a comprarle piu' di 8.000 libri, tutti di poesie. Tutto cio', nel rispetto di un patto stabilito dai due al momento del matrimonio. La spesa prevista e' di 700 milioni di rial (50.000 euro). Un caso simile e' avvenuto negli ultimi giorni: un altro marito si era visto ingiungere di comperare alla moglie 124.000 rose rosse.

Anonimo ha detto...

PER LA REDAZIONE: ho il sistema email che da paio di giorni dà allegramente i numeri (se continua me li vado a giocare!), che fa come gli pare. Un po' funziona e un po' no! Allora, il testo promesso dal mio amico J.xck sopra, facendo riferimento alla (mia) trad. di Pessoa (autore stimatissimo da Tabucchi) lo metto qui come continuazione a quanto lui diceva sopra. (Con gli "Stranisogni mi ha combinato un pasticcio! Gli avevo detto di fare attenzione e di non metterne tanto e che andava ancora corretto!)
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Il PROVINCIALISMO PORTOGHESE*
(di Fernando Pessoa – 12 agosto 1928)

(Trad. mia.) Se usando uno dei comodi artifici che ci servono a semplificare la realtà con lo scopo di comprenderla vogliamo riassumere la sindrome del più grande male portoghese, diremmo che è il provincialismo. È triste, ma non siamo i soli ad essere colpiti da questo male. Molti altri paesi ne soffrono. Paesi che, pur tuttavia, hanno il torto di sentirsi fieri della loro opera civilizzatrice.
Il provincialismo portoghese consiste nell’appartenere ad una civilizzazione senza prendere parte al suo sviluppo superiore – e dunque a seguirla per mimetismo, con la felicità della sottomissione incosciente.
La sindrome provinciale è costituita da almeno tre sintomi evidenti: l’entusiasmo e l’ammirazione per i vasti spazi e le grandi città; l’entusiasmo per il progresso e per la modernità; e, nella sfera mentale superiore, l’inettitudine all’ironia.
Se c’è una tratto che contraddistingue immediatamente il provinciale, è l’ammirazione per i vasti spazi. Un parigino non ammira Parigi; ama Parigi. Come potrebbe ammirare ciò che fa parte di sé stesso? Non si ammira sé stessi a meno di essere un paranoico con follie di grandezza. Ricordo di aver detto un giorno, al tempo dell’Orpheu /rivista di arte e letteratura/, a Mario de Sa-Carneiro /poeta, amico di Pessoa/: “Voi siete europeo e civilizzato, salvo su un punto, e là siete vittima dell’educazione portoghese. Voi ammirate Parigi, voi ammirate le grandi città. Se, come me, foste stato studente all’estero e sotto l’influenza di una grande cultura europea, non fareste attenzione alle grandi città. Sarebbero tutte in voi.”
Il gusto del progresso e l’altra forma della stessa caratteristica provinciale. I civilizzati creano il progresso, creano la moda, creano la modernità; cosicché non vi attribuiscono grande importanza. Non si dà importanza a ciò che si produce. È quando non si produce che si ammira la produzione. Per inciso: è una delle spiegazioni del socialismo. Se i creatori di civilizzazione hanno una tendenza, è quella di non rendersi abbastanza conto dell’importanza di ciò che creano. L’infante don Henrique /Enrico il Navigatore: 1393-1460/ fu il più sistematico fra tutti i creatori di civilizzazione, ma non vide il prodigio che stava creando – tutta la civilizzazione transoceanica moderna comprese le sue conseguenza abominevoli, come l’esistenza degli Stati Uniti. Dante adorava Virgilio come un modello ed una stella, ma non avrebbe mai pensato di paragonarsi a lui; pertanto, è assolutamente certo che La Divina Commedia è superiore all’Eneide. Ma il provinciale è affascinato davanti a quanto non ha fatto proprio perché non l’ha fatto; ed è fiero di questa sua fascinazione. Se non fosse così non sarebbe un provinciale.
È nell’inettitudine all’ironia che risiede la caratteristica più profonda del provincialismo mentale. L’ironia, non consiste nel fare degli scherzi, come lo si crede nei caffè e nelle redazioni, ma a dire una cosa dicendo il contrario. L’essenza dell’ironia è che in un testo non ci sia una sola parola che permetta di scoprirne il doppio senso, questo si deduce dal fatto che il testo non vuole evidentemente dire quanto dice. Swift, ad esempio, il più grande di tutti gli ironisti, a redatto, durante un periodo di carestia in Irlanda, un breve racconto che propone una soluzione a questa catastrofe, racconto che era una satira violenta contro l’Inghilterra. Vi suggerisce che gli Irlandesi mangino i propri figli. Ne studia il problema con la più grande serietà, e preconizza con chiarezza e coerenza l’utilizzo di bimbi che abbiano meno di sette anni poiché costituiscono un buon nutrimento. Non vi si trova una parola che stoni in questo trattatello apparentemente serio; nulla nel testo permette di pensare che la proposizione non è seria, se non fosse per la circostanza, completamente esterna al testo, che simili proposizioni non possono farsi con serietà.
È questa l’ironia. Per pervenirvi, bisogna avere una padronanza assoluta dell’espressione, frutto d’una grande cultura, ciò che gli Inglesi chiamano “detachment” – il poter prendere le distanze da sé stessi, di dividersi in due, prodotto di questo “sviluppo della civilizzazione dello spirito” è l’essenza stessa della civilizzazione, secondo lo storico tedesco Lamprecht. In altre parole, se si è provinciali non è possibile
L’esempio più flagrante del provincialismo portoghese e Eça de Queiroz /grande romanziere portoghese:1845-1900/. Ne è l’esempio più flagrante perché è lo scrittore portoghese che si è maggiormente preoccupato (come tutti i provinciali) di essere civilizzato. Quando ci prova con l’ironia, si resta costernati, non solo dal suo insuccesso ma dall’incoscienza che ne ha. Della stessa specie, A Reliquía, di uno zotico venuto da Paio Pires /villaggio vicino Lisbona/ che parla francese, è un documento doloroso. Perfino nelle pagine su Pacheco, quasi civilizzate, vengono guastate da diverse parole sfortunate che rompono l’imperturbabilità che esige l’ironia, e completamente sfigurate dallo sfortunato episodio della vedova di Pacheco. Basta confrontare Eça de Queioros, non dico a Swift ma, ad esempio, a Anatole France. Si vedrà la differenza tra un giornalista di provincia, anche brillante, e un vero artista, anche se limitato.
Per il provincialismo, esiste una sola terapia: sapere che esiste. Il provincialismo si nutre d’incoscienza; del fatto che noi ci crediamo civilizzati mentre non lo siamo. La coscienza della malattia e l’inizio della guarigione, la coscienza dell’errore quello della verità. Quando un matto sa che è matto, non lo è più. Stiamo per svegliarci, ha detto Novalis, quando sogniamo che ci stiamo svegliando.
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NOTA: “O provincianismo português”, in “O Noticias Ilustrado”, 2a serie, n°9, Lisbona, 12 agosto 1928 - Questo saggio fa parte di diversi scritti di Pessoa “sul caso mentale portoghese” (in generale). Si tratta di un testo introspettivo evidentemente; parlando dell’ironia con ironia, è sé stesso che sta descrivendo. (Nel 1932, quattro anni dopo, scrive, per l’appunto: “O caso mental português”, in Fama, n°1, Lisbona, 30 novembre 1932. Testo che sarebbe utile conoscere, per altri suoi punti vista sullo stesso "soggetto"...)
Pessoa, personalità difficilmente classificabile secondo i “canoni” politici o letterari che si utilizzano d’abitudine (con belle schede di parentele spirituali o quanto riconfortanti...) puo’, con apparente leggerezza, dimostrarsi veramente ingiusto. Ma non sempre a proposito, ancorché lo faccia per provocare. È il caso nei confronti di Eça de Queiras, considerato come il massimo romanziere portoghese (che si distingueva, tra l’altro, proprio per la fine ironia che Pessoa sta descrivendo!): il suo romanzo “A Reliquía” è una gran bella satira, finemente graffiante, contro ipocrisia e bigotteria... E Pessoa, che ti fa? Ti cita un romanzo inesistente, che ha lo stesso titolo. E lo attribuisce ad uno zotico... di un villaggio sperduto, che vuole parlare francese; facendo, così, riferimento al fatto che la scrittura di Queiras fa pensare a Flaubert. Ora, anche se questo è incontestabile, nulla toglie al suo grande valore letterario.
Tutto questo ci mostra l’utilizzazione che Pessoa può e vuole fare della “provocazione letteraria” (chiamiamola in questo modo): lievissima spesso, ma a volte anche più direttamente cattivella. Malgrado il suo scopo sia quello di aprire discussioni su cose che si davano per scontate. I testi di Pessoa - ed è questa una delle loro più forti peculiarità - si situano su diversi piani o livelli di significato. Il lettore è volutamente costretto ad una continua attenzione, circospetta... Al fine di poterne intravedere i diversi risvolti e le tante implicazioni. Nei testi sul provincialismo, ad esempio, è “evidente” che Pessoa ci va giù allegramente... semplificando volutamente una cosa o esagerando l’importanza di un’altra apparentemente meno importante. Fermo restando che sta parlando di profonde verità. La complessità degli uomini e del mondo insomma, è la vera “materia” delle sue riflessioni tanto sottilmente “eccentriche” (nel vero senso della parola... - v. qui, tra i “commenti”, gli estratti della sua biografia.)
Sui diversi aspetti del “Provincialismo”, e non solo su quello portoghese, se ne sono dette tante. Ogni paese ha il suo. Dovrebbe averlo (direbbe Pessoa pensando alle implicazioni, e non solo strettamente logiche, di tale eventuale mancanza se mai fosse possibile). Da noi, ad esempio, e per quanto concerne la letteratura, l’accusa di provincialismo ha costituito uno degli aspetti più costanti di tanta “buona critica letteraria” nei confronti di molto dei nostri autori. Con innumerevoli prese di posizione pro o contro, anche politiche, legate alle diverse concezioni ideologiche.

Anonimo ha detto...

Una precisazione sulla traduzione di Pessoa e la nota di sopra: il grande portoghese maltrattato da Pessoa: "Eça de Queiroz - grande romanziere portoghese:1845-1900", appare col nome distorto, e più volte, nel seguito. Il nome giusto è, effettivamente, Eça de Queiroz. Gli sbagli del traduttore sono dovuti al fatto che il mio amico (mi clicca dalle sue montagne!) è qualcuno di molto distratto e del tipo "irrecuperabile malgrado tutta la buona volontà" - senza parlare del fatto che a volte ci vede doppio o triplo!
Comunque, mi ha promesso un'altra breve... traduzione di Pessoa: “O caso mental português”, in "Fama", n°1, Lisbona, 30 novembre 1932. Qualcosa di molto interessante.
Mi scuso per aver annunciato che la traduzione di sopra era mia. Volevo dire: "mia" nel senso di sua.