25 gennaio 2010

I salotti perbene di un paese paranormale



di Benedetto Vecchi

il manifesto 23/01/2010,
e su fuoripagina (http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2010/mese/01/articolo/2217/)



L’Italia non sarà un paese normale, ma per quanto riguarda l’industria culturale è in linea con le tendenze presenti al di fuori dei suoi confini naturali. Da alcuni anni, infatti, abbiamo assistito a una concentrazione oligopolistica nella produzione editoriale che ha decretato l’eclissi dell’editore «puro», figura tanto mitica quanto rilevante nella storia culturale italiana dal secondo dopoguerra a una manciata di lustri fa. Una concentrazione oligopolistica tanto nella produzione editoriale che nella sua distribuzione e vendita. Questo non ha significato tuttavia un’omologazione sul lato dell’offerta. Anzi, l’editoria, tanto in Italia che al di fuori di essa, ha scoperto ben prima di tanti altri settori il just in time, cioè quella forma produttiva che consente alle case editrici di registrare e monitorare attentamente le variazioni dei consumi culturali, adeguando e differenziando la sua offerta.
Intellettualità diffusa
Accanto a questo mutamento «strutturale» ce n’è stato un altro: l’affermazione di un’egemonia culturale di destra che non ha coinciso con diffuse pratiche censorie, ma con una capacità di interpretare la differenziazione dei consumi culturali come una reazione al male oscuro delle democrazie occidentali, cioè a un ordine del discorso «politicamente corretto» che impedisce il libero sviluppo degli «spiriti animali» delle società tardomoderne o liquide che dir si voglia. Un’egemonia culturale di destra che parla cioè il linguaggio delle differenze e non della massificazione.
Ma se non mancano analisi su questa «rivoluzione passiva» dell’industria editoriale, poco e nulla è emerso su come essa è vissuta, interpretata da chi opera, meglio da chi ci lavora. E se le famose pagine dedicate da Adorno nella Dialettica dell’illuminismo all’industria culturale segnalavano enfaticamente che quella schiera di intellettuali curvi sulle macchine da scrivere per sfornare script e story board per Hollywood come se fossero curvi su una catena di montaggio coincideva con l’avvio di una colonizzazione mercantile della produzione culturale, nella realtà contemporanea la «ragion economica» è oramai diventatala norma dell’industria culturale, una realtà produttiva che vede al lavoro un numero sempre più crescente di uomini e donne. Di loro poco si sa, eccetto il fatto che possono disinvoltamente transitare dal ruolo di consulente a direttore di una collana, a collaboratore delle pagine culturali dei giornali o di una rivista culturale. Costituiscono cioè un’intellettualità diffusa dove le scelte di un singolo – visto che la cultura è una merce che contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica – non sono mai neutre, né trovano legittimazione in un indefinito principio di responsabilità individuale, ma sono sempre inserite in contesti produttivi, economici, ideologici.
La relazione tra scelte individuali e contesto è però diventata materia incandescente dopo che uno scrittore come Paolo Nori, collaboratore anche del manifesto, ha accettato l’offerta di «Libero», giornale notoriamente di destra, a collaborare con le sue pagine culturali. Scelta che ha fatto molto discutere, prima nel sito di Nazione indiana, dove il critico letterario Andrea Cortellessa non ha lesinato aspre critiche alla scelta di Nori. E negli stessi giorni in cui è apparsa la firma di Nori sul giornale diretto da Maurizio Belpietro, Vittorio Ostuni, editor per la saggistica della casa editrice Ponte delle Grazie, ha inviato una lettera aperta a Roberto Saviano, invitandolo a non pubblicare più per Mondadori, casa editrice di proprietà di Fininvest, cioè di Silvio Berlusconi.
Due vicende tra loro diverse che pongono al centro della scena il rapporto tra politica e cultura che la «rivoluzione passiva» dell’industria editoriale aveva cacciato a forza dietro le quinte. Ma come spesso accade nelle discussioni pubbliche, molti quotidiani – «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «Il riformista» – hanno cominciato a discettare sul dito dello scandalo (uno scrittore di sinistra che scrive per un giornale di destra famoso per i toni feroci usati nei suoi articoli e titoli), dimenticandosi di vedere la luna che quel dito indicava: quali possano, cioè, essere le forme di alterità, opposizione, financo antagonismo, di chi lavora in un’industria culturale segnata da una egemonia della destra?
Esperienze di alterità
Tema non peregrino, visto che, per quanto lo si possa auspicare, è impensabile che gran parte di quella intellettualità diffusa che lavora nelle case editrici si diriga verso le pur vivaci case editrici indipendenti che della qualità, della sperimentazione e della ricerca di autori nuovi vogliono fare la loro ragione sociale. Impensabile perché la piccola editoria indipendente è spesso caratterizzata da una diffusa e radicata precarietà nel rapporto di lavoro che certo non favorisce la scelta di lavorarci. Impensabile per la fragilità imprenditoriale che non sempre riesce a garantire la continuità di una produzione diversa da quella proposta dalle case editrici mainstream.
Dunque come stare nell’industria culturale? Tra gli autori, un’esperienza di alterità viene dallo scrittore collettivo Wu Ming, che ha imposto licenze «creative common» sul diritto d’autore per i propri romanzi. Altri scrittori hanno invocato, in un incontro pubblico sulla vicenda che si è tenuto in una libreria romana alcuni giorni fa, una rinnovata aura di un autore che non si impegna direttamente nella sfera politica, ma che attraverso i suoi contenuti vuol sempre illuminare la caverna in cui sono condannati a vivere uomini e donne. Il tutto con il tono disincantato e spregiudicato di chi ritiene di essersi salvato dal fiume in piena sulla riproducibilità tecnica della cultura e sulla morte dell’autore che ha investito da oltre un cinquantennio la riflessione teorica sullo statuto della letteratura, della filosofia e chi ne ha più, più ne metta.
La querelle attorno a Nori si è così dissolta in un brusio indistinto. Si è preferito inoltre cercare nel passato – la presenza della forma di Pier Paolo Pasolini sul «Corriere della Sera» o di Franco Fortini sul «Sole 24 ore» – una legittimazione a scelte che solipsisticamente evocano valori assoluti (libertà e responsabilità) cancellando però le condizioni che spesso impediscono l’esercizio di un responsabile e libero pensiero critico. E se «Libero» è il giornale che è, poco o nulla è stato detto sul fatto che l’egemonia culturale della destra è stata costruita, negli anni scorsi, anche nelle pagine culturali di giornali rispettabili e ammessi ai salotti buoni della società italiana. In passato, infatti, i reiterati interventi sul «Corriere della sera» a favore del libero mercato e dell’individualismo proprietario, in anni più recenti le pagine piene di liturgica empatia con le posizioni antilluministe presenti nella chiesa cattolica del «Foglio» sul pensiero hanno infatti avuto un peso maggiore delle pagine culturali di «Libero» o del «Giornale». Oppure basta scorrere gli ultimi anni dei catologhi di molte case editrici e trovare solo titoli su quell’unico mondo possibile che è il capitalismo contemporaneo. La «querelle Nori» può quindi essere archiviata come una delle tante dispute che periodicamente smuovono le acque quiete dell'industria culturale, ma rimane comunque il problema di come si possa stare in forma critica dentro di essa in maniera tale che ognuno possa far leva su quelle forme e trarre forza e potere contrattuale da esse.




DA R.LO.

7 commenti:

il chiuR.Lo. ha detto...

Tra conformismo e risentimento.
Quei tracotanti oligopoli del senso comune
di Marco Bascetta

«Abbiamo una nuova accademia, abbiamo una parodia di cultura di massa, abbiamo una parodia di stampa di informazione (....) Ma come rompere questa cultura accademica, come rompere il cerchio che ci stringe di una mistificata cultura di massa, come reagire a una informazione sempre più condizionante? Non basta più ormai stampare qualche buon libro (...) occorre stampare solo libri "nuovi", occorre mobilitare intorno a questi libri il consenso di masse sempre più vaste di lettori, occorre soprattutto individuare i temi e gli scrittori che possano meritare questi vasti consensi di opinione (...) Un editore che potrà magari venire a trattative con chi può riconoscere, in queste righe, avversario, ma che non potrà accettare la confusione del "colloquio"; un editore che dovrà far sì che ogni libro si presenti con caratteristiche nette, chiare. Un editore che spinga avanti come una bandiera i libri portatori di un messaggio liberatorio(...)».
A scrivere queste parole così accesamente «militanti» non è un qualche collettivo editoriale «di movimento», ma Giulio Einaudi nel lontano giugno del 1968. Parole che oggi suonano remote come la biblioteca di Alessandria. Certo, anche allora era il mercato a decretare fallimenti e successi, ma il mercato non è un dato di natura, bensì qualcosa che si costruisce con determinate regole, entro precisi rapporti di forza e determinate temperie culturali. Ed è da questa realtà e dalla sua attuale configurazione - piuttosto che da traballanti principi morali e da stucchevoli questioni d'onore - che converrebbe partire nel discutere di autori ed editori, di media e di pubblico, di cultura e di informazione.
Il mercato culturale al quale si riferivano le parole di Einaudi era costituito da una pluralità di soggetti e di spazi grandi e piccoli, da una tensione di ricerca e sperimentazione, da una voglia di progetto di cui oggi non restano che flebili quando non patetiche tracce. Ne era protagonista una editoria che si voleva, per così dire, autore di autori. E il pubblico a cui si rivolgeva era un tessuto sociale in fermento, avido di conoscenze e informazioni, pronto a rimettere tutto in discussione, ad accapigliarsi, a reagire, era un contesto in perenne movimento. Soprattutto in questo, e non in un corpus dottrinario, consisteva la cosiddetta «egemonia culturale della sinistra», del resto assai più eretica che ortodossa rispetto alla storia e alla fisionomia della sinistra stessa.
A sgominarla hanno provveduto, assai più del «vento dell'ovest» in senso ideologico, un poderoso processo di concentrazione e di integrazione tra i diversi media, laddove le «bandiere» hanno lasciato il campo ai dividendi senza odore né colore, le fisionomie sono state sacrificate alla massa dell'offerta e l'opinione pubblica è stata sostituita dalla «gente». Ora non si tratta certo di coltivare impotenti nostalgie o di rimpiangere questa o quella età dell'oro, ma di trovare una strada nella realtà presente. È ovvio che tanto gli autori quanto i lettori non possono che muoversi in questo contesto e non sarebbe ragionevole né realistico chieder loro di uscirne. Ma ci sono diversi modi di starci dentro, consapevoli o meno delle possibilità che preclude e dei meccanismi di esclusione che mette in atto. Di esercitare insomma una critica, di attivare una qualche forma di attrito se non di conflitto, di non consegnarsi, tacendo, alle lusinghe e alle condizioni di un poderoso apparato commerciale.
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il chiuR.Lo. ha detto...

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Se nell'«età dell'oro» che abbiamo rievocato, il pubblico dei lettori si manifestava in una molteplicità di domande e desideri di cambiamento, rivolti a un ambiente collettivo e complesso di produzione culturale, oggi l'autore sembra invece riscoprire la A maiuscola e considerare il suo pubblico alla stregua di fan o tifoserie, disposti a seguirlo sempre e dovunque, una sorta di patrimonio personale come gli elettori affiliati a certi politici che li spostano da uno schieramento all'altro. Il che rende irrilevante il luogo da cui si esprime. E preferibile quello che offre più visibilità e più risorse, senza troppa considerazione per i dispositivi che di quella visibilità e di quelle risorse sono all'origine. Se si considera neutro il contesto all'interno del quale si agisce, si finisce col considerare indifferente anche la forma in cui lo si fa.
Non si tratta certo di tornare ai recinti ideologici, alle consorterie o a un qualche irrealistico e melenso ideale di purezza, ma non sarebbe ragionevole dedicare qualche sforzo a ricostruire quell'ambiente, a riaprire un ventaglio di possibilità più vasto e meno controllato dagli oligopoli editoriali e dai loro criteri di selezione? Il fatto di essere passati attraverso il setaccio dell'industria culturale non è una colpa, ma non esime neanche dal giudicare il setaccio stesso. In altre parole non ci si può semplicemente adattare, fidando esclusivamente nel proprio talento, alle condizioni attuali della produzione e della diffusione culturale. Sarebbe una scelta destinata a compromettere il futuro, alimentando perversi meccanismi di riproduzione. La logica economica che sottende le concentrazioni editoriali ha conseguenze disastrose e ben visibili.

il chiuR.Lo. ha detto...

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Il senso comune oggi prevalente è pregno di risentimento, intriso della peggiore ideologia, impermeabile a ogni argomentazione razionale, compiaciuto della propria tracotante ignoranza, incline a confondere la chiarezza con la semplificazione e la brutalità. Buona parte del sistema dei media gli corrisponde pienamente, lo asseconda, lo alimenta.
È difficile avere per questo pubblico abbastanza rispetto da volergli parlare, da ritenere che il proprio pensiero possa fare breccia, che i prodotti confezionati dal pregiudizio possano includere elementi che li contraddicano. Sarà anche un punto di vista pessimistico, poco democratico e forse elitario, ma dubito che qualcosa di diverso dal ruvido impatto con la realtà dei fatti politici e sociali possa smuovere le menti intorpidite dall'egoismo, che le buone letture possano illuminare la notte leghista dove tutti i neri sono negri. Alcuni non la pensano così e qualcuno ha scelto di intervenire sui media prediletti da questo tipo di pubblico. Il che ha alimentato un lungo dibattito, in rete e sulla stampa, che sarebbe suonato assurdo solo qualche decennio fa, quando nessuno aveva la pretesa di parlare «alla gente» e ai suoi discutibili umori, ma a delle soggettività che di quelle idee avrebbero potuto farne qualcosa, ritrovandosi in determinati contesti, non necessariamente per assentire, ma certamente per ascoltare. Oggi, dove neanche i partiti sono più contesti, ma luoghi indifferenziati dove perfino il fondamentalismo religioso convive opportunisticamente col progressismo positivista e la «gente», variamente interpretata, la fa da padrona, si può anche capire che la specificità dei pulpiti abbia perso importanza e chiunque si senta più o meno autorizzato a sopravvalutare la potenza della propria voce. Non è dunque il caso di dedicarsi a scomuniche o a giudizi morali, ma neanche ci si può adagiare in una siffatta situazione a godersi l'ombra di una qualsiasi bandiera. Perché è proprio in questo narcisismo indifferente e insofferente, e soprattutto nel linguaggio della politica tutta, che si incarna l'attuale «egemonia culturale» della destra, poco consapevole di sé per gli stessi tratti antintellettualistici che la contraddistinguono, ma non per questo meno reale. Converrebbe insomma abbandonare l'illusione di «parlare a tutti», finendo in realtà con il parlare a nessuno, e riprendere una buona volta le distanze.
Manifesto, 23 gennaio 2010, p. 11 e su fuoripagina

il chiuR.Lo. ha detto...

14 gennaio 2010 - Corriere della Sera
Alzate senza paura le barriere linguistiche
Ceronetti Guido
Ma perché blaterate tanto, insistendo fastidiosamente, di integrare nei nostri precari confinetti moltitudini eterofone sempre più grandi e babeloparlanti, se state buttando via lo strumento civilizzatore per antonomasia, l'organo riproduttivo supremo di una forma di reale, non ipotetica e pia, forma di convivenza possibile - la vostra, la nostra, la disperatamente mia, Lingua Italiana? Una guerra atipica, incruentissima - eppure guerra vera, senza quartiere, senza infingimenti - è da fare, con mobilitazione generale includente giovani leve e vecchie, donne, uomini, e ragazzini rigorosamente privi di kalashnikov: la guerra all'Inglese, all'anglofonia d'occupazione, all'americofonia tecnologica, all'angloegemonia che implacabilmente va stritolando le lingue dell'Europa continentale e seppellendo in sabbie mobili senza ritorno, la meno reattiva di tutte: questo italiano nostro di penuria, analfabetizzato, stupidamente arreso all'angloamericano, sparlacchiato male da giovani linguisticamente rammolliti, obbligato al servilismo bilinguistico da governi, come l'attuale, che deliberatamente lo vogliono subordinato, e da comuni che dappertutto sembrano compiacersi di insegne eterolingui che stonano, che sforacchiano sinistramente l'ambiente urbano, che involgariscono, che deturpano... La diseducazione linguistica conduce dritto all'indifferenza a tutto: valori etici, culturali, religiosi del luogo dove «la casa dell'essere», il linguaggio in cui lo spirito della lingua s'incarna, patisce scala Richter al settimo, tanto che varrà meglio, per vivere in Italia, imparare inglese basico, pessimo ma apriporta dovunque, barbaricissimo però solidamente assiso, come il caprone dei Caprichos di Goya sulle sue zampe. Non può più essere una guerra di frontiera. Può diventare guerriglia di refrattari, guerrasanta di aborrimenti - perché il nemico è entrato da tempo e il suo ginocchio ci sta sulla gola. Se si ha da eleggere un consiglio comunale e un sindaco bisogna che si scopra sulle insegne e sul bilinguismo. Intolleranti, votarli. Tolleranti o indifferenti, astenersi o convergere. Che sugli autobus debba esserci scritto Entrance-Exit è intollerabile servilismo. Trovi bilingui programmi culturali, pubblicità bancaria, linguaggio tecnico di banca, rendiconti editoriali, contratti, orari, prezzi, messaggi telefonici registrati di ogni natura, menù di ristoranti, prefazioni erudite, cataloghi. C'è di peggio: il monolinguismo direttamente anglofono!

il chiuR.Lo. ha detto...

...
L'italiano in Italia è già sparito da alcuni corsi universitari, da seminari di azione teatrale come a Pontedera, dalla pubblicità informatica, dagli avvertimenti di pericolo, dagli indicatori luminosi delle automobili dei macchinari, dai colloqui di assunzione, dai sistemi compiuterizzati (come si può scrivere computer e derivati senza ricorrere a questa roba non masticabile?), perfino dalle pronunzie di nomi e parole stranieri ma non anglofoni - ed eccoci serviti di Piutin, Fiuhrer, giunior, Pleitone, e il francese onomastico fiorire di Chemiús, Bírnanos, Mòlier, Vìllon, Ueil, Giùvet, perché è ormai quasi cessato il rapporto vivente con la lingua sorella transalpina. Nel linguaggio sportivo l'italiano è ridotto a scopino. Nei graffiti sconci va prevalendo fuck. La frequentazione dei termini di economia è un pellegrinaggio infero in cui sommessamente piange il bell'italiano di Luigi Einaudi, di Vilfredo Pareto. Ulteriore il peggiorare quando la lingua è mischiata, all' interno talvolta di una parola sola, o l'inglese è italianato, o l'italiano angliato mediante particelle. Esempi incessanti: under ventuno; over settanta; bypassare; fare shopping; fare zapping; stoccare, stoccaggio; transgender; c'è un black out; deregulation; il fiscal drag; ce l'ho sul despley; essere trendy, essere sexy; è tutto on line; ho fatto un leasing; mi trovate sul mio blog; il boat people; apro un network; preso al discount; tre-dieci mille fiction; body scanner, scannerizzare; lavoro in un call center; viaggi low cost; vi trasmettiamo le news; News (testata); riunito lo staff; day hospital, election day; vaffanday; è stato un flop; il cuore in tilt... Quanto al Primo Ministro non è più riconoscibile che come il premier. E il premierato forte chi l'avrà inventato? Cittadini, una lingua così vaiolosa è un danger serio per tutti! Una lingua materna non è surrogabile da una sussidiaria, imposta con prepotenza. È in vista una diffusa confusione mentale. Alzate senza paura barriere linguistiche. Difendendo l'italiano proteggete voi stessi.
http://archiviostorico.corriere.it/2010/gennaio/14/Alzate_senza_paura_barriere_linguistiche_co_9_100114001.shtml

Unknown ha detto...

benvenuti su fuckbook :)

il chiuR.Lo. ha detto...

Mary Margaret O'Hara - Body's in Trouble video
http://www.youtube.com/watch?v=Z14wPTz6PdY