La Stampa.it 29/1/2010
ADDIO AL VECCHIO HOLDEN
Salinger, insostenibile peso della leggerezza
ANTONIO SCURATI
ADDIO AL VECCHIO HOLDEN
Salinger, insostenibile peso della leggerezza
ANTONIO SCURATI
Il vecchio Jerome D. Salinger - prima padre e poi nonno del giovane Holden - ci ha lasciati. Che la terra gli sia lieve, soprattutto a lui che dallo stampo della levità forgiò il più celebre antieroe del secondo dopoguerra.
Anche nel suo caso, però, come in molti altri casi di campioni dell’evanescenza, i problemi da loro sollevati ricadono su chi si lasciano dietro. A pensarci bene, questa razza di maestri della levità produce, paradossalmente, un pesante lascito di scorie. Salinger e il suo Holden appartengono, infatti, a quella rara specie di animali volatili, aerei ed eterei, a quella rara genia di sublimi acrobati dell’inconsistenza che brilla per un istante di luce incerta tracciando una scia da cometa tossica. A noi, alle creature che rimangono a terra, passato l’istante, ci lasciano soli di fronte a un cielo se possibile ancora più vuoto. Detto altrimenti: non ho mai trovato molti motivi per appassionarmi al Giovane Holden ma ho, invece, avuto numerose occasioni di soffrirne gli eredi. Certo, l’epigonia è da tempo un problema universale, e non si può imputare agli archetipi i loro epigoni, ma con i maestri della levità il problema degli epigoni si fa particolarmente pesante.
Se penso a quanto pervicace infantilismo si è fatto scudo di quel diciassettenne vizioso, svagato, fantasioso e ipersensibile che ama ballare e leggere ma non studiare, che adora il vecchio jazz e odia il cinema, se penso a quante quote del mondo adulto abbiamo dovuto rinunciare per poterci accucciare sotto il totem dell’eterna adolescenza, se penso a quanto il culto tributato ai romanzi d’indesiderabile formazione si è reso complice di una società oramai completamente incapace di fornire una qualsiasi formazione ai propri figli, se penso a quanta insulsaggine si è contrabbandata per candida saggezza infantile, non mi dispiacerebbe, tutto sommato, metterci una pietra sopra.
Il mio problema con Salinger è, insomma, lo stesso che ho con Calvino: è un problema con i salingeriani, con i calvinisti della levità a tutti i costi e costi quel che costi. Ho già scritto, su questo stesso giornale, che l’influsso sulla cultura letteraria (e non solo) delle lezioni americane di Calvino è stato, a mio modesto parere, tra i più nocivi. In nome della sua eredità, incompresa, fraintesa, equivocata, enormi volumi d’inanità hanno potuto trovare un formidabile alibi nell’autorevole elogio della leggerezza. Vale lo stesso per Salinger.
C’è stata una stagione in cui togliere peso alle cose era, forse, la mossa giusta da fare. Ora che l’inconsistenza è diventata l’ideologia dominante, se vogliamo tornare a calcare la terra da uomini, dovremmo forse riguadagnare un po’ di gravitas. Insomma, tutta ’sta adolescenza ci ha stufato. E sospetto che Holden Caulfield sarebbe d’accordo con me.
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/201001articoli/51706girata.asp
L’espresso Blog 29/1/2010
Salinger e la retorica
MARIO FORTUNATO
E’ morto J.D. Salinger, lo scrittore americano del “Giovane Holden”, ed è uno scatenamento di retorica. Leggo solo commenti sperticati. Mi chiedo perché.
Intendiamoci: Salinger è stato uno scrittore di straordinario talento. Un talento tuttavia strozzato, anzi cancellato da lui stesso. Dopo “Il giovane Holden”, i “Nove racconti” e poco altro, ha infatti deciso di togliersi di mezzo, come scrittore. Non ha più pubblicato nulla. Perché? Non lo sappiamo. Non ha mai spiegato se continuava a scrivere, preferendo non pubblicare, o se non scriveva affatto, oppure se scriveva e poi buttava via tutto, per insoddisfazione o autolesionismo.
Quello che a noi è rimasto – il suo corpus letterario – benché a tratti scintillante è comunque assai poco. E’ il bellissimo, promettentissimo abbozzo di qualcosa che poi non è stato. Direste oggi di Raymond Radiguet, autore dell’indimenticabile ma solitario “Il diavolo in corpo”, che è uno dei giganti del Novecento?
Mi chiedo allora perché tutta questa retorica a stampa sulla morte di un autore eccellente ma non certo grandissimo, il cui nome rimane legato fondamentalmente a un titolo e a un personaggio (e fate pure paragoni: che cosa sarebbe la signora Bovary senza “L’educazione sentimentale”? Anna Karenina senza “Guerra e pace”, Tonio Kroger senza “La montagna incantata”, Mrs Dalloway senza “Gita al faro” e via di seguito?) Ho l’impressione, in altri termini, che il clamore eccessivo di oggi, l’eccesso di iperbole sull’importanza di Salinger sia dettato da motivi extra-letterari, paradossalmente riaffermando quella cultura dell’immagine e del sensazionale, che lui ha così evidentemente detestato con coerenza fino alla morte.
Che cosa voglio dire? Una cosa semplice. Salinger non ha tollerato il proprio successo, la fama, presumo anche la ricchezza. Ha insomma sputato (se così posso volgarmente esprimermi) su ciò che chiunque di noi brama incessantemente da quando diventa un individuo adulto. Parlo almeno delle società occidentali (anche se non vedo modelli così diversi neppure ad altre latitudini). Quello che noi – scrittori, artisti, operai, massaie, esseri umani in generale – desideriamo raggiungere con tutte le nostre forse, lui, Salinger, lo ha semplicente rifiutato. E così si è autorecluso per decenni. Mai dato interviste. Mai messo piede in uno studio televisivo. Mai neanche una foto. Niente. E se qualcuno si azzardava ad andarlo a cercare nel suo buco del New Hampshire dove viveva fino a ieri l’altro, lui lo scacciava via a suon di calci e di avvocati.
Come ho detto, non sappiamo perché tutto questo. Io immagino che fosse semplicemente un po’ tocco. Del resto, sua figlia Catherine ha scritto a suo tempo un’autobiografia, in cui la figura del padre era tratteggiata a tinte non proprio rassicuranti. Ma non importa. Il punto vero è che questo rifiuto di fama e successo ha colpito indelebilmente la sensibilità media occidentale. Giusto i santi cattolici, nel passato, hanno avuto la stessa caparbia determinazione a negarsi.
Credo sia questo che oggi, di fronte alla morte, emerge nei giudizi e nei ricordi. Non si piange in realtà il grande scrittore, bensì l’individuo che, unico nel campo artistico-letterario dell’ultimo secolo, si è spogliato di se stesso per accedere a una specie di santità laica. Nell’era del trionfo del consumo, della ricchezza e della sua ancella – l’immagine – Salinger ha mandato tutti a quel paese, in nome della sua bizzarria, o anche soltanto della sua disgraziata paranoia.
http://fortunato.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/01/29/salinger-e-la-retorica/
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