Siamo nel Pronto Soccorso di un grande ospedale milanese. La suoneria stridula del cicalino mette in allarme il rianimatore di guardia che scende a passo svelto nella sala d’emergenza: la centrale del “118” ha appena avvisato dell’imminente arrivo di un arresto cardiaco! L’attesa si fa spasmodica, gli sguardi si fissano verso il corridoio d’ingresso del PS.
Meccanicamente il rianimatore controlla la lama del laringoscopio ed i farmaci già aspirati sul carrello di emergenza.
“Si sa di che cosa si tratta?”, “No! Le informazioni non sono molto precise, comunque l’equipaggio del mezzo di soccorso avrebbe già iniziato
le manovre rianimatorie…..”
La porta scorrevole si apre improvvisamente e la barella spinta a passo di corsa dai volontari fa il suo ingresso.
Il primo colpo d’occhio rivela uno spettacolo desolante: un vecchietto all’ultimo grado della cachessia (i sopravvissuti di Auschwitz a confronto sarebbero sembrati grassi!) con qualche attività respiratoria agonica ed un ritmo cardiaco preterminale.
Il capoequipaggio consegnando al rianimatore un voluminoso pacco di documentazione clinica riferisce di un “ tumore polmonare in fase terminale”. Il paziente era stato dimesso una settimana prima ed i parenti
dovutamente informati delle gravissime condizioni del caso e dell’inutilità
di ulteriori provvedimenti terapeutici o palliativi.
Pochi minuti dopo arriva la figlia tutta trafelata. Alla domanda se era ben conscia delle reali condizioni di suo padre, risponde seccamente col tono di chi non ammette replica: “ certamente che ne sono conscia! Ma non voglio assolutamente un morto un casa !.....”
La scena si sposta in un piccolo ospedale di provincia.
L’anestesista del turno notturno fa il giro degli operati del giorno, aggiusta qualche terapia antalgica, controlla la diuresi, scambia qualche parola di conforto con i degenti quando l’infermiera del reparto gli chiede di dare uno sguardo ad una paziente anziana disorientata ed agitata.
Dopo aver somministrato un sedativo, mentre si allontana, nota appena fuori dal reparto, nel salotto adibito a sala di televisione, un’ombra distesa su un comodo divano che sembra dormire il sonno del giusto.
Stupito chiede di chi si tratta. Gli viene risposto che è il figlio di quella signora che viene ad “assisterla” per la notte, ma che “disturbato” dall’agitazione della madre preferisce andare a dormire nel salotto!
Rimaniano nello stesso ospedale: in una calda giornata d’estate si presenta al pronto soccorso una giovane signora accompagnata dal marito, ambedue in abbigliamento balneare.
Sembrano estremamente scocciati e questo cattivo umore traspare ad ogni risposte alle inevitabili e necessarie domande del medico di guardia.
In pratica la signora ha dovuto interrompere una promettente vacanza sulla riviera ligure perché si era slogata una caviglia. Ha anche provato ad andare comunque in spiaggia ma di fronte al crescente gonfiore e dolore si sono dovuti arrendere all’evidenza: conveniva farsi vedere e magari effettuare una lastra di controllo.
Controvoglia, decisero dunque di tornare a casa, ma non riuscivano ad accettare l’improvviso ingresso della sofferenza nella loro vacanza e la loro frustrazione si riversava palesemente sul personale del PS, quasi a renderlo responsabile di ciò che era loro successo.
Questi sono solo tre episodi citati alla rinfusa, e forse nemmeno i più marcanti degli innumerevoli comportamenti che mi capita quasi quotidianamente di incontrare e che hanno tutti lo stesso denominatore comune: il rifiuto della sofferenza ed l’ostinato tentativo di rimuoverla dal normale vissuto umano.
Continuamente bombardati dai modelli di vita veicolati dai mass media, in particolar modo dalla TV, non si riesce più ad accettare la sofferenza, la malattia, la vecchiaia e la morte come componenti ineludibili della condizione umana, come fenomeni con i quali ognuno di noi deve imparare a fare i conti.
La vita deve essere bella, scintillante, e vissuta a grande velocità.
Il corpo deve rimanere giovane in eterno e sembrebbe anche che l’unica età della vita degna di essere vissuta sia quella adolescenziale, ai cui canoni estetici e comportamentali si ispirano ormai anche le generazioni prossime al trapasso.
Coinvolti in mille frenetiche attività e sollecitazioni sembrerebbe che fermarsi un attimo a riflettere ad un eventuale senso da dare al nostro essere in questo mondo sia vietato, o forse visto addirittura come elemento di disturbo.
Si capisce dunque che l’incidente o l’improvvisa malattia nostra o di un nostro congiunto che interrompe bruscamente questa bella favola che è la “nostra” vita rielaborata dai media, viene visto come qualcosa di insopportabile, di inaccettabile, di inumano .
Certamente la carenza ormai storica, nel nostro paese, di servizi sociali diffusi ed efficienti fa troppo spesso gravare sulle spalle degli individui e delle famiglie dei carichi troppo pesanti.
Ma credo che oltre a questo vi sia un problema culturale: dagli anni ottanta in poi vi è stato un graduale ma costante cambiamento nella nostra scala di valori, cambiamento che ha anche subito una accelerazione negli ultimi dieci anni.
Siamo diventati sempre meno solidali, sempre più concentrati su noi stessi,
sempre più freneticamente alla ricerca della felicità, o perlomeno di ciò che i media ci indicano come essere la felicità ed in questa corsa, la malattia, la vecchiaia e la morte non vengono più presi in conto, anzi vengono accuratamente rimossi, lasciandoci ovviamente impreparati quando ne veniamo colpiti.
D’altronde, viviamo in un paese che ha appena tirato un sospiro di sollievo all’attesa notizia che Kakà rimarrà al Milan e nel quale l’arrivo quest’estate dello yacht di Briatore a Soverato (per chi non lo sapesse paese natìo della Gregoracci) ha provocato lo spostamento di folle osannanti, plaudenti, vergognosamente ossequianti o peggio elemosinanti !
Faccio notare, en passant, che Renato Dulbecco, uno dei nostri ormai rari premio Nobel per la medicina è anche originario da quelle parti, ma non credo che il suo arrivo provocherebbe una tale emozione ed ammirazione.
I modelli che ci vengono offerti sono i calciatori, le veline, le soubrette.
La soluzione ai nostri problemi consiste nella speranza nel colpo di fortuna.
Non crediamo più alle virtù dell’impegno quotidiano, del lavoro, dello sforzo verso un graduale miglioramento, perché ci viene continuamente strombazzato che la nostra vita può drammaticamente cambiare dall’oggi al domani: basta un biglietto del superenalotto, una partecipazione ad “affari vostri”, al “grande fratello”, all’ “isola dei famosi”, ad “ X factor” oppure semplicemente una apparizione in TV.
La nostra vita più che vissuta viene sognata.
Come in “Matrix” siamo tutti stati messi in uno stato di sonno REM ed incitati a credere che ciò che ci viene fatto sognare sia la nostra realtà. Sarebbe ora di svegliarsi!
Francesco Fusaro
Meccanicamente il rianimatore controlla la lama del laringoscopio ed i farmaci già aspirati sul carrello di emergenza.
“Si sa di che cosa si tratta?”, “No! Le informazioni non sono molto precise, comunque l’equipaggio del mezzo di soccorso avrebbe già iniziato
le manovre rianimatorie…..”
La porta scorrevole si apre improvvisamente e la barella spinta a passo di corsa dai volontari fa il suo ingresso.
Il primo colpo d’occhio rivela uno spettacolo desolante: un vecchietto all’ultimo grado della cachessia (i sopravvissuti di Auschwitz a confronto sarebbero sembrati grassi!) con qualche attività respiratoria agonica ed un ritmo cardiaco preterminale.
Il capoequipaggio consegnando al rianimatore un voluminoso pacco di documentazione clinica riferisce di un “ tumore polmonare in fase terminale”. Il paziente era stato dimesso una settimana prima ed i parenti
dovutamente informati delle gravissime condizioni del caso e dell’inutilità
di ulteriori provvedimenti terapeutici o palliativi.
Pochi minuti dopo arriva la figlia tutta trafelata. Alla domanda se era ben conscia delle reali condizioni di suo padre, risponde seccamente col tono di chi non ammette replica: “ certamente che ne sono conscia! Ma non voglio assolutamente un morto un casa !.....”
La scena si sposta in un piccolo ospedale di provincia.
L’anestesista del turno notturno fa il giro degli operati del giorno, aggiusta qualche terapia antalgica, controlla la diuresi, scambia qualche parola di conforto con i degenti quando l’infermiera del reparto gli chiede di dare uno sguardo ad una paziente anziana disorientata ed agitata.
Dopo aver somministrato un sedativo, mentre si allontana, nota appena fuori dal reparto, nel salotto adibito a sala di televisione, un’ombra distesa su un comodo divano che sembra dormire il sonno del giusto.
Stupito chiede di chi si tratta. Gli viene risposto che è il figlio di quella signora che viene ad “assisterla” per la notte, ma che “disturbato” dall’agitazione della madre preferisce andare a dormire nel salotto!
Rimaniano nello stesso ospedale: in una calda giornata d’estate si presenta al pronto soccorso una giovane signora accompagnata dal marito, ambedue in abbigliamento balneare.
Sembrano estremamente scocciati e questo cattivo umore traspare ad ogni risposte alle inevitabili e necessarie domande del medico di guardia.
In pratica la signora ha dovuto interrompere una promettente vacanza sulla riviera ligure perché si era slogata una caviglia. Ha anche provato ad andare comunque in spiaggia ma di fronte al crescente gonfiore e dolore si sono dovuti arrendere all’evidenza: conveniva farsi vedere e magari effettuare una lastra di controllo.
Controvoglia, decisero dunque di tornare a casa, ma non riuscivano ad accettare l’improvviso ingresso della sofferenza nella loro vacanza e la loro frustrazione si riversava palesemente sul personale del PS, quasi a renderlo responsabile di ciò che era loro successo.
Questi sono solo tre episodi citati alla rinfusa, e forse nemmeno i più marcanti degli innumerevoli comportamenti che mi capita quasi quotidianamente di incontrare e che hanno tutti lo stesso denominatore comune: il rifiuto della sofferenza ed l’ostinato tentativo di rimuoverla dal normale vissuto umano.
Continuamente bombardati dai modelli di vita veicolati dai mass media, in particolar modo dalla TV, non si riesce più ad accettare la sofferenza, la malattia, la vecchiaia e la morte come componenti ineludibili della condizione umana, come fenomeni con i quali ognuno di noi deve imparare a fare i conti.
La vita deve essere bella, scintillante, e vissuta a grande velocità.
Il corpo deve rimanere giovane in eterno e sembrebbe anche che l’unica età della vita degna di essere vissuta sia quella adolescenziale, ai cui canoni estetici e comportamentali si ispirano ormai anche le generazioni prossime al trapasso.
Coinvolti in mille frenetiche attività e sollecitazioni sembrerebbe che fermarsi un attimo a riflettere ad un eventuale senso da dare al nostro essere in questo mondo sia vietato, o forse visto addirittura come elemento di disturbo.
Si capisce dunque che l’incidente o l’improvvisa malattia nostra o di un nostro congiunto che interrompe bruscamente questa bella favola che è la “nostra” vita rielaborata dai media, viene visto come qualcosa di insopportabile, di inaccettabile, di inumano .
Certamente la carenza ormai storica, nel nostro paese, di servizi sociali diffusi ed efficienti fa troppo spesso gravare sulle spalle degli individui e delle famiglie dei carichi troppo pesanti.
Ma credo che oltre a questo vi sia un problema culturale: dagli anni ottanta in poi vi è stato un graduale ma costante cambiamento nella nostra scala di valori, cambiamento che ha anche subito una accelerazione negli ultimi dieci anni.
Siamo diventati sempre meno solidali, sempre più concentrati su noi stessi,
sempre più freneticamente alla ricerca della felicità, o perlomeno di ciò che i media ci indicano come essere la felicità ed in questa corsa, la malattia, la vecchiaia e la morte non vengono più presi in conto, anzi vengono accuratamente rimossi, lasciandoci ovviamente impreparati quando ne veniamo colpiti.
D’altronde, viviamo in un paese che ha appena tirato un sospiro di sollievo all’attesa notizia che Kakà rimarrà al Milan e nel quale l’arrivo quest’estate dello yacht di Briatore a Soverato (per chi non lo sapesse paese natìo della Gregoracci) ha provocato lo spostamento di folle osannanti, plaudenti, vergognosamente ossequianti o peggio elemosinanti !
Faccio notare, en passant, che Renato Dulbecco, uno dei nostri ormai rari premio Nobel per la medicina è anche originario da quelle parti, ma non credo che il suo arrivo provocherebbe una tale emozione ed ammirazione.
I modelli che ci vengono offerti sono i calciatori, le veline, le soubrette.
La soluzione ai nostri problemi consiste nella speranza nel colpo di fortuna.
Non crediamo più alle virtù dell’impegno quotidiano, del lavoro, dello sforzo verso un graduale miglioramento, perché ci viene continuamente strombazzato che la nostra vita può drammaticamente cambiare dall’oggi al domani: basta un biglietto del superenalotto, una partecipazione ad “affari vostri”, al “grande fratello”, all’ “isola dei famosi”, ad “ X factor” oppure semplicemente una apparizione in TV.
La nostra vita più che vissuta viene sognata.
Come in “Matrix” siamo tutti stati messi in uno stato di sonno REM ed incitati a credere che ciò che ci viene fatto sognare sia la nostra realtà. Sarebbe ora di svegliarsi!
Francesco Fusaro