28 gennaio 2009

IL VIAGGIO DELL’INTELLETTUALE ARENA


Come una “foglia strappata dal vento” il poeta Giuseppe Antonio Arena credeva di viaggiare “su una nave senza rotta”. Non giunse mai alla meta desiderata e la sua nave fu sempre “accompagnata da un uccello emigrante” che gli abitava il cuore.
In realtà il poeta si trovava nella stessa nave dell’Ulisse dantesco, intraprese il suo viaggio “per seguir virtute e canoscenza”, si sentiva “prigioniero della vita e della morte”, si fermava in ogni stazione del mondo, cercava la sua meta in ogni porto, ma soprattutto cercava di conoscere i profondi abissi della sua anima, voleva ritrovare sé stesso assieme ai suoi sogni e alle sue illusioni.
Il suo viaggio ebbe inizio in una “terra maledetta dal Cielo”, che vede crescere la vipera sulle sue aspre colline e che rimane inerte e inerme dinanzi alla grandine ed al sole che calpestano il grano e alle “sette feroci” che predominano e annientano chi vi abita.
Arena voleva cambiare la terra che lo aveva allevato, voleva che essa non facesse fiorire soltanto “l’olivo e l’arancio”, ma anche un’idea vera di democrazia, seguita dalla sua attuazione sul piano economico, politico e culturale.
Quello dell’intellettuale Arena fu un reale e profondo impegno politico: in un primo momento si avvicinò a quello che era il Partito Comunista Italiano, ricoprendo cariche di un certo rilievo, in seguito iniziarono a presentarsi all’interno del partito stesso “tracce di stalinismo” e se ne distaccò, pur continuando ad interessarsi alla politica ed al sociale e a condannare l’interesse individuale in favore di quello collettivo.
Forse proprio da qui ebbe origine il dissidio interiore dell’intellettuale, eternamente combattuto tra impegno civile e disimpegno, tra ideologie ed utopie. Si sentiva un “pellegrino” che nutriva “lagrime in fondo” al cuore, deluso e sconfitto dalla società di cui credeva far parte. Nutriva un profondo “dolore trasmesso dagli avi” a cui “non esiste rimedio”, quasi come se il disincanto prodotto dal fallimento della politica e del suo impegno civile fosse una colpa atavica ed ereditaria, propria di ogni uomo.
Arena abbandonò la sua terra che produceva “solo gramigna” per recarsi a Napoli; qui compì i suoi studi universitari che completò poi a Roma.
La sua condizione interiore non mutò affatto, era sempre “un uccello notturno inchiodato nel suolo”, Napoli gli appariva come “una città con tante colline che non stanno mai ferme e con sotto mille spaventose caverne” in cui poche volte la sua mano da poeta veniva illuminata da “un raggio di sole”.
Si dedicò all’insegnamento e agli studi storici, ottenendo anche per alcuni periodi la cattedra di insegnamento presso l’Università di Campobasso. Partecipò al dibattito e alla discussione sul dialetto napoletano, sostenendo le sue tesi a favore del dialetto nella “Risposta al dialetto napoletano dell’abate Galiani”.
Visitò molti paesi dell’Est, in cui credeva potesse nascere il frutto “sano” del socialismo, cercò nuovi orizzonti negli Stati Uniti, perse i “bagagli per le stazioni del mondo” in cui ritrovare i sogni perduti.
Fu proprio questa sua condizione di esule ramingo che gli fece “esalare i versi” più belli “che si perdono nel grande pianeta della vita”. Sentiva da lontano una “voce sperduta nel sonno profondo dell’infimo Sud”: era la voce della sua terra che lo richiamava a sé, che gli destava nell’animo il sentimento di una nuova delusione.
Gli era stata “rubata la terra in cui nacque e sognò suo padre”, se pur “maledetta” e allevatrice del “lupo che sbrana la pecora”, del più forte che prevale di continuo sul più debole. Tutto questo accadeva anche in America, dove “la legge della Common law condanna i poveri e assolve i ricchi”.
Il poeta peregrinante non aveva “trovato accoglienza in nessuna terra vicina o lontana” e aveva riscoperto “New York -la Grande Mela- un acino d’uva, senza succo e sapore”.
Arena era “il bambino della montagna” di cui scrisse in un racconto breve, viveva in armonia con la natura pur non avendo “vocazione per la pastorizia”, aveva un animo particolarmente sensibile e poetico, “divenne dottore in Diritto romano, professore, avvocato”, ma nel suo cuore rimaneva viva la semplicità ed il ricordo del bambino che abitava in montagna. Egli aveva lasciato la parte più vera di sé nella “terra di Calabria”, aveva lasciato l’amore per la vita bucolica, per la cultura contadina, per la spontaneità e proprio nella sua terra aveva abbandonato per sempre il suo amore e il suo “sogno nei fiori dei campi”, caduto nelle mani della “gente più brutta” mentre il poeta era “volato lontano”.
Amava proferire le celebri parole di Cesare Pavese: “La mia parte pubblica l’ho fatta- ciò che potevo. Ho lavorato. Ho dato poesia agli uomini. Ho condiviso le pene di molti”. Effettivamente queste parole erano il sunto della sua attività umana, sociale e politica, era stato intellettuale e come tale si era dedicato alla politica ed al sociale, era stato poeta e come tale aveva racchiuso nel suo animo le pene e le sofferenze di tutta l’umanità.
Così il viaggio, l’erranza e la continua ricerca mai appagata finirono per costituire l’essenza della sua vita e della sua attività poetica.
Non aveva trovato sollievo in nessuna parte del mondo, non aveva trovato una terra migliore, non aveva trovato un luogo dove si attuassero e si concretizzassero le sue utopie. Ogni volta che approdava in un nuovo porto, provava inevitabilmente l’esigenza di recarsi da qualche altra parte, era cosmopolita, ma il suo cuore era caldo come la sua Calabria e lontano da essa si sentiva apolide.
Sapeva che, sebbene la sua terra non fosse “baciata dal sole” della democrazia, avrebbe saputo diffondere calore ed i suoi monti avrebbero abbracciato l’emigrante che ritorna allo stesso modo in cui avrebbe fatto un padre col suo figliol prodigo.
In ultimo la “nave” di Arena riuscì ad approdare nei mari della Calabria, ma non nell’oceano in cui si riversava lo spirito errabondo del poeta.


Ilenia Faragasso

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bel saggio sul nostro compaesano...Purtroppo qui il lupo sta ancora sbranando la pecora!

ln ha detto...

Verissimo.
Ma non sarà che le pecorelle preferiscono farsi sbranare nel recinto piuttosto che scappare nel bosco?