28 settembre 2009

TOXCAL


roberto.galullo@ilsole24ore.com
Non solo navi dei veleni nel Mediterraneo. Catanzaro spalanca il far west di cave e laghi della ‘ndrangheta.


Dopo quella di Paola (Cosenza) tocca a Catanzaro. La Procura della Repubblica ha infatti dato mandato alcuni mesi fa all’Agenzia regionale per l’ambiente (Arpacal) di fare rilievi e analizzare il contenuto di materiale estratto dalla cava dismessa di Gimigliano, comune a un trentina di chilometri dal capoluogo.
La notizia arriva dall’ex direttore scientifico dell’Arpacal, Antonio Scalzo, che a luglio 2009 ha dato le dimissioni. “Non solo la Procura di Paola – conferma al telefono mentre è ancora convalescente dopo un’operazione chirurgica – negli ultimi tempi ha fatto ricorso al nostro lavoro, ma anche quella di Catanzaro e quella di Crotone, dove la situazione dell’ex area Pertusola è esplosiva”.

PERTUSOLA E LE MANI DELLA ‘NDRANGHETA
Pertusola Sud Crotone è l’industria calabrese che ha prodotto zinco dagli anni Venti fino alla fine degli anni Novanta. Dopo diverse indagini, il caso è finito nel mirino della Procura di Crotone che con l’inchiesta “Black Mountains”, coordinata dal pm Pierpaolo Bruni, nel settembre del 2008 ha disposto il sequestro di 18 aree tra i comuni di Isola Capo Rizzuto e Cutro.
Dal 1999 a oggi sarebbero state smaltite illegalmente 350 mila tonnellate di rifiuti cancerogeni (tra cui il cubilot, scarto di lavorazione altamente tossico della Pertusola). Disastro ambientale, ma anche discarica abusiva di materiali pericolosi, avvelenamento delle acque, turbativa d’asta e frode in forniture pubbliche: questi i reati contestati a sette indagati, tra imprenditori e funzionari pubblici.
L’accusa ritiene che le scorie, contenenti zinco, piombo, arsenico, mercurio, indio e germanio, mixate alle polveri provenienti dall’Ilva di Taranto, siano state utilizzate in edilizia, per fondi stradali e parcheggi, anziché smaltite in discariche speciali. Le indagini, partite dopo le denunce di un imprenditore specializzato nella movimentazione terra e l’esposto anonimo di un gruppo di cittadini della zona, si sono poi avvalse anche di numerose testimonianze di ex operai della fabbrica. Da queste emergerebbe l’impiego dei rifiuti anche per i lavori all’aeroporto di Reggio Calabria e all’acquedotto di Crotone, oltre che per i cortili di tre scuole della provincia a cui sono stati immediatamente messi i sigilli.
All’indomani dei sequestri, ricorda ancora Legambiente, la Regione ha costituito una task force con il compito di avviare un monitoraggio dei terreni e della falda acquifera, che hanno rilevato la presenza di sostanze tossiche, oltre a un esame epidemiologico sulla popolazione per mitigare i rischi per la salute pubblica.
L’inchiesta ha poi ipotizzato che gli scarti tossici della Pertusola siano anche finiti nel mare crotonese, visto che nel 2007 uno studio del Conisma (Consorzio nazionale interuniversitario sui fondali marini) aveva rilevato la presenza di arsenico.
Pensare che tutto questo possa essere accadute senza l’”intelligence” delle cosche crotonesi sarebbe demenziale. Così come sarebbe ingenuo pensare che – tutto ciò chenon venova smaltito illegalmente nel coclo del cemnto – fosse smaltito regolarmente. Chissà dove saranno andate a finire migliaia di tonnellate di rifiuti tossici.

LE INDAGINI A GIMIGLIANO
Anche a Gimigliano l’ipotesi, tutta da verificare, è che la cava possa ospitare anche illegalmente interrati altamente nocivi. Nessuno per il momento può escludere che contengano scorie nucleari radioattive. “Del resto, così come lungo il greto del fiume Oliva – spiega Scalzo – i tecnici stanno ancora proseguendo il loro lavoro”. Proprio lungo il corso d’acqua tra Aiello Calabro e Serra d’Aiello, l’Arpacal – che già 5 anni fa aveva rilevato anomalie sulle quali non era poi andata a fondo per una ragione o per l’altra – ha individuato un triangolo collinare a forte rischio radioattivo. Il legame con i traffici internazionali delle cosche sono immediati e infatti l’inchiesta della Procura di Paola racchiude nello stesso fascicolo l’affondamento della Cunsky a largo delle coste di Cetraro (Cosenza) e il filone dell’entroterra.
Procura che sta per cedere l’inchiesta sull’affondamento della Chunsky alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Lo ha detto il procuratore capo, Bruno Giordano, il 22 settembre davanti alla Commissione palamentare sul ciclo dei rifiuti, confermando quanto aveva dichiarato a me nell’intervista rilasciata sul Sole-24 Ore di domenica 20 settembre.


CAVE: IL FAR WEST CALABRIA PER LEGAMBIENTE
A preoccupare è soprattutto l’utilizzo delle cave che può essere stato fatto negli anni da parte della ‘ndrangheta.
In Calabria – come ha denunciato nel maggio di quest’anno Legambiente - non esistono regole in materia di attività estrattive e quel che emerge con certezza è che la maggior parte sono del tutto illegali. Il controllo delle ecomafie sull’attività di cava permette di tenere sotto controllo il ciclo del cemento e a riutilizzare le aree abbandonate come discariche abusive con presenza di rifiuti pericolosi. Gli effetti sono evidenti nel paesaggio calabrese, con torrenti e fiumi deviati (come il Torbido e il Neto), boschi e aree cancellate.
Per dare un'idea del giro d'affari, basti pensare che è stato calcolato che la più piccola delle cave scoperte nel 2004, pari a duemila metri quadri, fruttava 100mila euro all'anno.
RAPPORTO ECOMAFIA 2009
La Direzione nazionale antimafia (Dna) non esita a denunciare la collusione tra ‘ndrangheta e istituzioni (sindaci, tecnici comunali, “perfino un ufficiale della Marina militare”) e la “pratica generalizzata del voto di scambio”. Nelle parole del magistrato della Dna Vincenzo Macrì, il giro di affari legato al “traffico, smaltimento illecito e reimpiego di rifiuti tossici”, soprattutto nelle province di Vibo Valentia e Crotone, è “colossale”. Anche la Direzione investigativa antimafia (Dia), a proposito della criminalità calabrese, concorda nell’attribuire al business dei rifiuti un posto “di assoluto rilievo dell’operatività mafiosa”.
Insomma, nessuno sa esattamente come e dove siano stati smaltiti nei decenni centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti (anche scorie nucleari) provenienti da tutto il mondo. E mentre l’attenzione si concentra nelle acque italiane del Mediterraneo, presto potrebbe aprirsi anche il fronte dell’utilizzo delle centinaia di piccoli laghi sulla Sila. Pochi forse sanno che il sistema più sicuro per conservare i fusti radioattivi è proprio quello di immergerli in acqua.



DA R.LO.

5 commenti:

(u)R.Lo. ha detto...

http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/lipperatura/2008/12/09/il-rosa-e-il-nero-e-il-verdenero-anche/
Navi a perdere di Carlo Lucarelli è il tredicesimo titolo di VerdeNero, una delle iniziative editoriali più interessanti, e più meritevoli, della piccola editoria. VerdeNero è una collana nata dalla collaborazione tra Edizioni Ambiente e Legambiente, ha aggregato molte firme della narrativa italiana (Loriano Machiavelli, Piero Colaprico, Giancarlo De Cataldo, Simona Vinci, Wu Ming, Massimo Carlotto) e soprattutto si è data come tema unico quello dell’ecomafia. Dunque, abusivismi, scempio ambientale, traffici illegali: tutto quello che affligge l’Italia da anni, raccontato nel linguaggio del noir.

Navi a perdere (pagg.136, euro 10) ha due protagonisti che non esistono più. Il primo personaggio è una nave. Anzi, una motonave da carico: si chiama Rosso, meglio nota come nave dei veleni. Si è arenata su una spiaggia calabrese il 14 dicembre 1990.

Il secondo personaggio è Natale De Grazia: in un altro giorno di dicembre di cinque anni dopo sta viaggiando in macchina verso La Spezia. Si ferma per un caffè. Risale in auto. Impallidisce, respira a fatica. Le persone che sono con lui chiamano soccorso: l’ambulanza arriva sotto la pioggia e lo porta all’ospedale di Nocera. Natale De Grazia, capitano di corvetta, muore per arresto cardiocircolatorio. Aveva trentotto anni. Era in ottima salute. Indagava sulla Rosso e su altre navi scomparse per conto della Procura di Reggio Calabria. I suoi compagni di viaggio erano due carabinieri.

Lucarelli parte da qui: racconta il poco che è dato sapere su un uomo insignito di riconoscimenti alla memoria per i suoi sacrifici, il suo senso del dovere e per la contrastata indagine sui traffici clandestini che avvenivano a bordo della Rosso e di altre motonavi misteriosamente affondate (cinquanta, secondo Legambiente). Lucarelli racconta per particolari: ritrova, per esempio, le parole della vedova Anna: “Da quando si occupava di queste vicende era sempre molto preoccupato, stressato. Ma a me diceva di non avere paura”.

Sottolineare quelli che sembrano dettagli non è secondario: perchè lo stesso autore avverte che i dettagli “non sono mai neutrali”, ma anche perché Navi a perdere non è soltanto un’inchiesta. E’ una narrazione fitta di intersezioni, di colori, di suoni: con una profonda ricerca sul linguaggio e una costruzione lucidissima.

Che parte dal 1988 e dai rifiuti speciali (diossina proveniente da Seveso) trasportati dalla Jolly Rosso, che in virtù di quel carico conquista il suo sinistro soprannome. L’anno successivo si chiamerà in un altro modo: via il Jolly, resta Rosso. Ancora un anno, e affonda. Ma come? Intanto, racconta Lucarelli, non si trova la falla che avrebbe fatto imbarcare acqua: c’è un buco nello scafo, è vero, ma è “così netto e squadrato” che può averlo fatto solo la fiamma ossidrica. E c’è quel marinaio che nella tappa a Napoli si fa sbarcare: ufficialmente, per malattia. Ma ai compagni dice un’altra cosa: “Fate meglio a scendere anche voi, perché questa nave indietro non ci torna”. Poi, ci sono i container: ne vengono recuperati venti su venticinque. E gli altri? Infine, ci sono i camion, visti dai testimoni dopo il naufragio: quelli che arrivano, di notte, ad una discarica, quelli che spariscono verso località sperdute dell’Aspromonte.

La parola dietrologia viene usata più volte. Con amarissimo sarcasmo, Lucarelli la richiama elencando i misteri italiani, dalla morte di Enrico Mattei a Ustica. Fino ad arrivare all’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che indagavano proprio “sull’ipotesi di un traffico di armi e di rifiuti tossici. Armi arrivate via mare, rifiuti tossici infilati sotto terra, coperti dalla pavimentazione di una strada costruita dalla cooperazione italiana”. Dietrologia significa, anche, sospettare che “ci sarà sempre una città che si trova a una distanza dalla piramide di Cheope che moltiplicata, sottratta, divisa ed elevata al quadrato fa 666, il numero della Bestia”.

(u)R.Lo. ha detto...

http://blog.verdenero.it/2009/09/28/giornalista-di-repubblica-denunciata-per-una-recensione-a-verdenero/
Giornalista di Repubblica querelata per una recensione a VerdeNero

Quando ho sentito Loredana Lipperini al telefono per avere spiegazioni in merito a questa storia non volevo crederci. Querelata per una recensione? Già, è proprio quello che è successo.

La giornalista di Repubblica è stata convocata questa mattina in questura per aver scritto una recensione di Navi a perdere, il VerdeNero scritto da Carlo Lucarelli sulla vicenda Jolly Rosso e Natale De Grazia.

Chi è il querelante? Nientepopodimenoche Paolo Messina, armatore della Jolly Rosso assolto nel marzo scorso, insieme ai fratelli Ubaldo e Giorgio, dall’accusa di “occupazione del demanio marittimo e di abbandono di cavi, di un rimorchio, di un portellone, di un gruppo frigo e lamiere varie nei fondali marini”.

Dopo la querela per diffamazione nei confronti di Francesco Cirillo è la volta quindi di Loredana, che naturalmente ha tutta la nostra solidarietà e comprensione. Quello che suona un po’ assurdo è il motivo della querela. Ho letto infatti da capo a fondo la recensione della giornalista di Repubblica - invito anche voi a farlo - in cerca di indizi e motivazioni necessarie a giustificare un’azione del genere, ma sinceramente non ne ho trovate.

Siamo qui in attesa di sapere come andrà a finire. Sperando naturalmente per il meglio.

(u)R.Lo. ha detto...

lucio battisti 29 settembre
http://www.youtube.com/watch?v=BR7vtmlGgsg

(u)R.Lo. ha detto...

Corriere della Sera.it

LA LETTERA - LA RAI HA L'INTENZIONE DI TOGLIERE LA TUTELA LEGALE A REPORT
Ho una trentina di cause. E non riesco ad avere una polizza per le spese legali
Solo una compagnia inglese e una americana disponibili a rifondere il danno, ma non le spese

Luigi Ferrarella, sulle pagine di questo giornale, ha sollevato un problema che condivido e mi tocca da vicino: la pressione politica (che in Italia è particolarmente anomala) sul condizionamento della libertà d’informazione forse non è l’aspetto più importante, anche se ciclicamente emerge quando coinvolge personaggi noti. Per questo facciamo grandi battaglie di principio e ignoriamo gli aspetti «pratici». Premesso che chiunque si senta diffamato ha il diritto di querelare, che chi non fa bene il proprio mestiere deve pagare, parliamo ora di chi lavora con coscienza. Alla sottoscritta era stata manifestata l'intenzione di togliere la tutela legale.
La direzione della terza rete ha fatto una battaglia affinché questa intenzione rientrasse, motivata dal dovere del servizio pubblico di esercitare il giornalismo d’inchiesta assumendosene rischi e responsabilità. Nell’incertezza sul come sarebbe andata a finire ho cercato un’assicurazione che coprisse le spese legali e l’eventuale danno in caso di soccombenza dovuta a fatti non dolosi. Intanto sul mercato italiano, di fatto, nessun operatore stipula polizze del genere, mentre su quello internazionale questa prassi è più diffusa. Bene, dopo aver compilato un questionario con l’elenco del numero di cause, l’ammontare dei danni richiesti e l’esito delle sentenze, una compagnia americana e una inglese, tenendo conto del comportamento giudicato fino a questo momento virtuoso, si sono dichiarate disponibili ad assicurare l’eventuale danno, ma non le spese legali. Sembra assurdo, ma il danno è un rischio che si può correre, mentre le spese legali in Italia sono una certezza: le cause possono durare fino a 10 anni e chiunque, impunemente, ti può trascinare in tribunale a prescindere dalla reale esistenza del fatto diffamatorio.
...

(u)R.Lo. ha detto...

...
A chi ha il portafogli gonfio conviene chiedere risarcimenti miliardari in sede civile, perché tutto quello che rischia è il pagamento delle spese dell’avvocato. L’editore invece deve accantonare nel fondo rischi una percentuale dei danni richiesti per tutta la durata del procedimento e anticipare le spese ad una montagna di avvocati. Solo un editore molto solido può permettersi di resistere. Quattro anni fa mi sono stati chiesti 130 milioni di euro di risarcimento per un fatto inesistente, e la sentenza è ancora di là da venire. Se alle mie spalle invece della Rai ci fosse stata un’emittente più piccola avrebbe dovuto dichiarare lo stato di crisi. Visto che ad oggi le cause pendenti sulla mia testa sono una trentina, è facile capire che alla fine una pressione del genere può essere ben più potente di quella dei politici, e diventare fisicamente insostenibile. Questo avviene perché non esiste uno strumento di tutela. L’art. 96 del codice di procedura civile punisce l’autore delle lite temeraria, ma in che modo? Con una sanzione blanda, quasi mai applicata, che si fonda su una valutazione tecnica «paghi questa multa perché hai disturbato il giudice per un fatto inesistente». Nel diritto anglosassone invece la valutazione è «sociale», e il giudice ha il potere di condannare al pagamento di danni puntivi «chiedi 10 milioni di risarcimento per niente? Rischi di doverne pagare 20». La sanzione è parametrata sul valore della libertà di stampa, che viene limitata da un comportamento intimidatorio. La condanna pertanto deve essere esemplare. Ecco, copiamo tante cose dall’America, potremmo importare questa norma. Sarebbe il primo passo verso una libertà tutelata prima di tutto dal diritto. Al tiranno di turno puoi rispondere con uno strumento politico, quale la protesta, la manifestazione, ma se sei seppellito dalle cause, anche se infondate, alla fine soccombi.

Milena Gabanelli
29 settembre 2009
http://www.corriere.it/cronache/09_settembre_29/lettera-gabanelli-milena-gabanelli_9d055306-acbd-11de-a07d-00144f02aabc.shtml