Non si tratta di un ennesimo incendio, ma della sciagurata disposizione del Genio civile e del Comune di Acri: è stata rilasciata una concessione per il taglio dell’intera fascia ripariale, da Luzzi alla diga di Cecita, a favore di imprese, probabilmente per alimentare la centrale a combustione di “biomassa” di Rende (l’ex legno-chimica).
Questo fatto è gravissimo, un disastro ecologico, che è possibile leggere come tale soltanto se si analizzano in modo unitario i vari aspetti.
L'eliminazione del bosco ripariale, idraulicamente, produce un aumento della velocità delle piene e questa fa aumentare le capacità del trasporto solido delle acque, che, in un tratto d’alveo torrentizio montano, significa un aumento delle erosioni di fondo e spondali. Se ciò lo inseriamo nel contesto dei ripidi pendii che dal letto del Mucone salgono verso Acri da una parte e verso Serricella dall’altra — pendii in frana, si tratta di frane quiescenti, ma molto profonde e solcate da conoide da colata detritica o mista (così come classificate dall’Autorità di Bacino nel Piano Stralcio) — il danno idrogeologico dovrebbe essere chiaro a chiunque. Non solo, non ci sarebbe alcun beneficio idraulico a riscontro; difatti, non c'è alcun motivo di allargare la sezione di deflusso dell'alveo: ci troviamo in una valle senza alcuna infrastruttura e talmente ampia che proprio non ha alcun bisogno di essere allargata; le golene e le basse sponde ove vegeta il bosco ripariale possono contenere senza alcun problema anche piene di carattere eccezionale. Se poi consideriamo anche il fatto che una parte delle piogge dell’alto bacino imbrifero è trattenuta dalla diga di Cecita, un evento di carattere eccezionale passa nella vallata del Mucone solo muggendo, ma senza creare danni. Mentre se gli si aumenta la velocità, senza il bosco ripariale, l’onda di piena crea danni non solo in questo tratto deforestato, con i conseguenti richiami delle frane sulle pendici, ma anche a valle dove ci sono ponti e altre infrastrutture.
Se idraulicamente e idrogeologicamente, l’intervento non è giustificabile né giustificato (e non si capisce come il Genio civile abbia potuto rilasciare la concessione), lo è ancor di meno dal punto di vista ambientale. La zonizzazione della vegetazione nei boschi ripariali, strettamente vincolata alla presenza stessa del corso d'acqua, ha un andamento lineare e parallelo al flusso della corrente ed è in relazione alla decrescente capacità di resistere alla sua forza; questo movimento sia attivo sia passivo dell’energia, dei materiali e degli organismi lungo e attraverso il corridoio ripariale produce una forma particolare di vita, una funzione ecologica rilevante per la connettività della dispersione di organismi vegetali e delle dinamiche delle vita delle popolazioni animali presenti.
L’importanza di questi habitat è riconosciuta a livello europeo; in molte zone anche in presenza di problematiche idrauliche complesse (corsi d’acqua con sezioni di deflusso insufficienti), con rischi di esondazioni e allagamenti, i boschi ripariali vengono protetti; inoltre, a riprova della riconosciuta importanza a livello europeo c’è il fatto che molti di questi habitat sono stati inseriti fra i siti di maggiore protezione (SIC e ZPS). Ma l’ambientalismo, anche in questo caso risulta inefficace e forviante.
L’ultimo ritrovato legislativo relativo alla “protezione ambientale” è il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137". Questo Codice fra l’altro tutela e sottopone alle proprie disposizioni anche i corsi d'acqua e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna.
Un intervento di taglio del bosco ripariale deve essere, quindi, previamente sottoposto all'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, come modificato dal Decreto Legislativo 24 marzo 2006, n. 157. Questo articolo, fra altro, recita: "I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati …..., ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”.
La complessità ecologica che sta dietro a interventi del genere, qualora esterni alle zonizzazioni SIC e ZPS, benché vincolati, si riduce all’espressione di un giudizio “estetico” sui valori paesaggistici. Così funzionari comunali o delle sovrintendenze (persone, a questo punto, sicuramente di “buon gusto”) rilasciano autorizzazioni paesaggistiche svincolando con un “parere estetico” la distruzione di un bosco.
Il concetto di valore paesaggistico è per molti molto vago, e dà adito a interpretazioni varie. Il Decreto definisce cosa si debba intendere per paesaggio e per la sua tutela, ma .... L’art. 131 così si esprime:
1. Ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni.
2. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili.
Perché poi un paesaggio qualunque abbia maggior o minore valore paesaggistico è un mistero, ovvero dipende dalla percezione delle manifestazioni identitarie degli stessi. In questo senso i funzionari preposti devono essere persone di “buon gusto”, con spiccato senso estetico, in grado di saper apprezzare un “bel paesaggio”. Purtroppo non è così per i nostri. A nulla sono valsi i magnifici quadri di Giuseppe De Vincenti sulla vallata del Mucone, non hanno sensibilizzato questi poveretti (nel senso dello spirito)
.
D’altronde l’estetica nei tempi moderni si dava soltanto per le opere d’arte. L’arte stessa, esteticizzandosi (vista cioè soltanto dalla parte del “pubblico” e non più dalla parte dell’artista), era tale per effetto della valorizzazione che veniva data dall’uomo di buon gusto, cha sapeva riconoscere un opera come “opera d’arte”. Questa però si distingueva nettamente dalle “cose che si fanno da sole”, dalle opere naturali; altrimenti il concetto di arte, strettamente legato all’attività creativa dell’artista, sarebbe venuto meno.
Evidentemente la svalorizzazione dell’attività creativa è proseguita oltre l’esteticizzazione dell’arte. Ora non c’è più bisogno neanche di un’opera per esercitare il giudizio estetico.
Ritornando al paesaggio, anche questo viene esteticizzato. Nonostante la definizione del 1 comma, che potrebbe avvicinarsi a quella di ecologia, cioè di casa della vita, di habitat dove le reciproche interazione fra storia umana e natura danno luogo a caratteri distintivi e unici, con il comma 2 il valore paesistico viene ridotto alla percezione di questi elementi. Cioè non si analizzano, conoscono e riconoscono questi valori in sé, ma si rimanda ad una loro percezione da parte di un uomo di buon gusto che sappia valorizzare questo paesaggio anziché l’altro. Come per l’arte ci si dovrà aspettare una svalorizzazione del concetto stesso di paesaggio.
La vallata del Mucone, con il suo bosco ripariale composto non solo da pioppi e salici, ma anche da ontani, nella parte alta, e da querce da sughero, nella parte più a valle, con la varietà degli animali che vi vivono che vanno dai rettili e dagli anfibi fino alle lontre, diverrà una brulla e sassosa vallata che impiegherà oltre un decennio per ricostituirsi. Ma nel frattempo la vita animale si ridurrà drasticamente e le probabili piene trasporteranno più a valle il terrazzo fluviale che sta al piede delle ripide pendici che salgono verso Acri e Serricella, stimolando la quiescenza di quelle grosse e profonde frane. Tutto ciò per una valutazione “estetica” o paesaggistica poco avveduta e per la scelleratezza di qualche tecnico che di idraulica e di idrogeologia non sa nulla pur professando tali competenze.
Vincenzo Talerico
Questo fatto è gravissimo, un disastro ecologico, che è possibile leggere come tale soltanto se si analizzano in modo unitario i vari aspetti.
L'eliminazione del bosco ripariale, idraulicamente, produce un aumento della velocità delle piene e questa fa aumentare le capacità del trasporto solido delle acque, che, in un tratto d’alveo torrentizio montano, significa un aumento delle erosioni di fondo e spondali. Se ciò lo inseriamo nel contesto dei ripidi pendii che dal letto del Mucone salgono verso Acri da una parte e verso Serricella dall’altra — pendii in frana, si tratta di frane quiescenti, ma molto profonde e solcate da conoide da colata detritica o mista (così come classificate dall’Autorità di Bacino nel Piano Stralcio) — il danno idrogeologico dovrebbe essere chiaro a chiunque. Non solo, non ci sarebbe alcun beneficio idraulico a riscontro; difatti, non c'è alcun motivo di allargare la sezione di deflusso dell'alveo: ci troviamo in una valle senza alcuna infrastruttura e talmente ampia che proprio non ha alcun bisogno di essere allargata; le golene e le basse sponde ove vegeta il bosco ripariale possono contenere senza alcun problema anche piene di carattere eccezionale. Se poi consideriamo anche il fatto che una parte delle piogge dell’alto bacino imbrifero è trattenuta dalla diga di Cecita, un evento di carattere eccezionale passa nella vallata del Mucone solo muggendo, ma senza creare danni. Mentre se gli si aumenta la velocità, senza il bosco ripariale, l’onda di piena crea danni non solo in questo tratto deforestato, con i conseguenti richiami delle frane sulle pendici, ma anche a valle dove ci sono ponti e altre infrastrutture.
Se idraulicamente e idrogeologicamente, l’intervento non è giustificabile né giustificato (e non si capisce come il Genio civile abbia potuto rilasciare la concessione), lo è ancor di meno dal punto di vista ambientale. La zonizzazione della vegetazione nei boschi ripariali, strettamente vincolata alla presenza stessa del corso d'acqua, ha un andamento lineare e parallelo al flusso della corrente ed è in relazione alla decrescente capacità di resistere alla sua forza; questo movimento sia attivo sia passivo dell’energia, dei materiali e degli organismi lungo e attraverso il corridoio ripariale produce una forma particolare di vita, una funzione ecologica rilevante per la connettività della dispersione di organismi vegetali e delle dinamiche delle vita delle popolazioni animali presenti.
L’importanza di questi habitat è riconosciuta a livello europeo; in molte zone anche in presenza di problematiche idrauliche complesse (corsi d’acqua con sezioni di deflusso insufficienti), con rischi di esondazioni e allagamenti, i boschi ripariali vengono protetti; inoltre, a riprova della riconosciuta importanza a livello europeo c’è il fatto che molti di questi habitat sono stati inseriti fra i siti di maggiore protezione (SIC e ZPS). Ma l’ambientalismo, anche in questo caso risulta inefficace e forviante.
L’ultimo ritrovato legislativo relativo alla “protezione ambientale” è il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137". Questo Codice fra l’altro tutela e sottopone alle proprie disposizioni anche i corsi d'acqua e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna.
Un intervento di taglio del bosco ripariale deve essere, quindi, previamente sottoposto all'autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, come modificato dal Decreto Legislativo 24 marzo 2006, n. 157. Questo articolo, fra altro, recita: "I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati …..., ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”.
La complessità ecologica che sta dietro a interventi del genere, qualora esterni alle zonizzazioni SIC e ZPS, benché vincolati, si riduce all’espressione di un giudizio “estetico” sui valori paesaggistici. Così funzionari comunali o delle sovrintendenze (persone, a questo punto, sicuramente di “buon gusto”) rilasciano autorizzazioni paesaggistiche svincolando con un “parere estetico” la distruzione di un bosco.
Il concetto di valore paesaggistico è per molti molto vago, e dà adito a interpretazioni varie. Il Decreto definisce cosa si debba intendere per paesaggio e per la sua tutela, ma .... L’art. 131 così si esprime:
1. Ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni.
2. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili.
Perché poi un paesaggio qualunque abbia maggior o minore valore paesaggistico è un mistero, ovvero dipende dalla percezione delle manifestazioni identitarie degli stessi. In questo senso i funzionari preposti devono essere persone di “buon gusto”, con spiccato senso estetico, in grado di saper apprezzare un “bel paesaggio”. Purtroppo non è così per i nostri. A nulla sono valsi i magnifici quadri di Giuseppe De Vincenti sulla vallata del Mucone, non hanno sensibilizzato questi poveretti (nel senso dello spirito)
.
D’altronde l’estetica nei tempi moderni si dava soltanto per le opere d’arte. L’arte stessa, esteticizzandosi (vista cioè soltanto dalla parte del “pubblico” e non più dalla parte dell’artista), era tale per effetto della valorizzazione che veniva data dall’uomo di buon gusto, cha sapeva riconoscere un opera come “opera d’arte”. Questa però si distingueva nettamente dalle “cose che si fanno da sole”, dalle opere naturali; altrimenti il concetto di arte, strettamente legato all’attività creativa dell’artista, sarebbe venuto meno.
Evidentemente la svalorizzazione dell’attività creativa è proseguita oltre l’esteticizzazione dell’arte. Ora non c’è più bisogno neanche di un’opera per esercitare il giudizio estetico.
Ritornando al paesaggio, anche questo viene esteticizzato. Nonostante la definizione del 1 comma, che potrebbe avvicinarsi a quella di ecologia, cioè di casa della vita, di habitat dove le reciproche interazione fra storia umana e natura danno luogo a caratteri distintivi e unici, con il comma 2 il valore paesistico viene ridotto alla percezione di questi elementi. Cioè non si analizzano, conoscono e riconoscono questi valori in sé, ma si rimanda ad una loro percezione da parte di un uomo di buon gusto che sappia valorizzare questo paesaggio anziché l’altro. Come per l’arte ci si dovrà aspettare una svalorizzazione del concetto stesso di paesaggio.
La vallata del Mucone, con il suo bosco ripariale composto non solo da pioppi e salici, ma anche da ontani, nella parte alta, e da querce da sughero, nella parte più a valle, con la varietà degli animali che vi vivono che vanno dai rettili e dagli anfibi fino alle lontre, diverrà una brulla e sassosa vallata che impiegherà oltre un decennio per ricostituirsi. Ma nel frattempo la vita animale si ridurrà drasticamente e le probabili piene trasporteranno più a valle il terrazzo fluviale che sta al piede delle ripide pendici che salgono verso Acri e Serricella, stimolando la quiescenza di quelle grosse e profonde frane. Tutto ciò per una valutazione “estetica” o paesaggistica poco avveduta e per la scelleratezza di qualche tecnico che di idraulica e di idrogeologia non sa nulla pur professando tali competenze.
Vincenzo Talerico
1 commento:
La testa dovevano tagliarli!!!
Posta un commento