Da http://altrimondi.gazzetta.it/2009/05/la-giornata-dello-scrittore.html
Carlos Fuentes per “la Repubblica” (venerdì 22 maggio 2009)
Sono uno scrittore disciplinato. Ogni sera, prima di andare a dormire, preparo, come un alunno diligente, un foglio con i compiti per il giorno dopo. Tema, personaggi, linguaggio. Il tutto con rigore teutonico.
Mi addormento. Mi sveglio presto. Mi lavo. Mi preparo la colazione. Silvia prepara il pranzo e la cena. Adesso dorme profondamente.
Infine, verso le 7.30, mi siedo a scrivere con il mio schema bene in vista. A mezzogiorno interrompo il lavoro conoscendo quello che ignoravo e ignorando quello che conoscevo. Le cose che ho scritto in quattro ore e mezzo hanno poco o niente a che vedere con la mia razionale lista della spesa della sera prima.
È comparso qualcosa di diverso. Una novità improbabile, una sorpresa oscura, un piacere del già scritto paragonabile solo alla delusione del non-scritto.
Che cosa è accaduto in quelle ore di sonno? Al di là di ogni razionalizzazione freudiana - il sogno distorce, rimuove, simbolizza - posso accettare che in sogno compaiano i morti che abbiamo amato a dirci in segreto quello che non hanno potuto dirci a viva voce. Se è così, vuol dire che nell´atto di sognare non compaiono solo i fantasmi della creazione, ma anche i suoi destinatari, il suo pubblico primo e primario: gli esseri amati.
Sognare è creare perché durante il sonno, che è metà dell´esistenza, si danno appuntamento la gestazione della vita e l´annuncio della morte. Portale privilegiato in cui si stringono la mano i due estremi dell´origine e della fine, come può l´onirico non alterare la discrezione del razionale, introducendovi la propria indiscrezione?
Arrivare a un compromesso che non comprometta il sogno ma che non sacrifichi neppure la ragione apre la porta - una doppia porta, difficile da custodire - fra ciò che rubo al sonno e ciò che do alla veglia, perché anche se credo, illudendomi, di controllare la porta del mattino, non sono sicuro di sapere se sto aprendo o chiudendo la porta della notte.
Una cosa è certa: non si tratta di un processo ostile, né verso di me né verso gli altri. Ed è pericoloso, questo sì, ma solo per me. Se ieri sera sapevo quello che avrei scritto oggi, come scriverò adesso quello che prima ignoravo? Credo che la risposta vada ricercata nell´annosa questione del destinatario della scrittura. Sospetto degli scrittori che, fin dal primo momento, proclamano di scrivere per la gente. E detesto gli scrittori che conoscono la ricetta preconfezionata del successo di vendite. Invece mi sento attratto - come da un abisso, è vero - dall´avventura di un mistero iniziale (per chi scrivo?) o dall´onanismo di una giustificazione solitaria (scrivo solo per me), per approdare, nelle mie sette ore di sonno che sono l´altra metà della vita, alla rivelazione dei destinatari concreti: i più vicini, i più cari, quelli che se ne sono andati seguendo la legge del fiume profondo, ad aspettarci in un tempo senza lancette.
Una nonna del nord del Messico, discendente dagli indios Yaquis, coraggiosa e arguta, piccola e scura, figlia del direttore della Zecca di Sonora, originario di Santander, che le permetteva, da bambina, di scivolare dalla cima di una montagna di monete d´oro. Madre di quattro donne, una di loro era mia madre, vedova prematura di un nonno alto, bello e pallido la cui vita terminò, solitaria e pietosa, in un lazzaretto, costringendo mia nonna a cercare lavoro nella campagna di alfabetizzazione del ministro José Vasconcelos e una volta in pensione, controvoglia, a regalare a noi nipoti i suoi aneddoti fantastici e ai generi il manuale delle buone maniere.(...)
Devo dire grazie a mio padre, e al suo amore per un fratello scomparso, se mi sono avvicinato alla letteratura. Lo zio defunto si chiamava Carlos come me e fu più che una promessa, un brillante e giovane poeta veracruzano, discepolo preferito del poeta Salvador Díaz Mirón. Un ragazzo alto, biondo, serio, che nel 1919, a ventun´anni, fu mandato a studiare a Città del Messico e lì morì di tifo in un paese rivoluzionario e rivoluzionato dove le epidemie della povertà e dell´incuria uccidevano più dei proiettili. La sua morte intristì per sempre la mia nonna paterna, come la morte del marito fece con la mia nonna materna: le ho sempre viste tutte vestite di nero e così, a lutto, compaiono nei miei sogni, ripetendo storie tanto vecchie che ormai sono diventate nuove.
Anche i miei figli entrano nei miei sogni, seppure in modo diverso. Cecilia, la maggiore, è viva e mi aiuta nel lavoro. Natasha, la minore, è morta a 29 anni di una vita impaziente, assetata di conoscenza, frettolosa e mandata giù d´un sorso, inquieta e ribelle verso le mancanze delle persone e l´ingiustizia del mondo. Mio figlio Carlos sperimentò invece l´armonia della vita e la sua vocazione di poeta, cineasta e pittore, accelerando la sua creatività naturale - creò fin dall´infanzia - quando seppe, fin dall´infanzia, di essere mortale, emofiliaco dalla nascita ed esposto, indifeso, a tutti i mali del tempo.
La mia vita è un libro che si regge in piedi grazie a quei due book-end che la sostengono e le danno un senso di origine e fine: Boettiger, mio zio poeta e Carlos Fuentes Lemus, mio figlio poeta, forse i protagonisti più assidui dei miei sogni, al punto che quando mi sveglio e mi metto a scrivere, non so più se quello che scrivo appartenga a me o me lo dettino loro, i miei omonimi dalle vite troncate (...)
Antenati, morti giovani e vecchi. È raro che gli amici appaiano nei sogni. La loro attualità è troppo forte, troppo discreta, per interferire nelle mie notti. Ogni amico è come un Virgilio che mi accompagna alla luce del giorno, a quel perpetuo mattino che è l´amicizia e che si manifesta - ciao, come va, buongiorno, che piacere, che enorme piacere, che miracolo - nella parola non solo esclamata ma semplicemente detta, visto che nell´amicizia scopro che la parola benedetta non è la benedetta parola e nemmeno la disdetta della parola, ma la parola detta.
Byron descrisse l´amicizia come un amore senza ali. Io cerco di restituire le ali all´amicizia che, secondo Dickens, è un uccello che non deve perdere una sola penna, neppure quella con cui scrivo. Sono uno scrittore pre-moderno che non utilizza macchine, ma penna, inchiostro e carta da tenere con sé per averle sempre a portata di mano in aereo, in spiaggia e in hotel. Ha bisogno di altro la parola?
Quel che è certo è che adesso è mattina, fra le sette e mezzo e mezzogiorno, le ore della parola scritta. Quel che è certo è che nella scrittura e nella vita viviamo in un costante scambio di parole. Sappiamo che il mondo ci dà parole e che scrivendo le restituiamo al mondo. Ma la parola scritta non è più la stessa parola data dal mondo: è stata trasformata dal linguaggio, che è di tutti, per dire qualcosa che prima non era di nessuno. (...)
C´è chi scrive per essere amato: Dickens, García Márquez.
C´è chi scrive per essere odiato: Céline, Houellebecq.
C´è che scrive per essere gustato: Saramago, Nélida Piñon, artefici della lingua più gostosa, la lusitana.
C´è che scrive per in-vertire: Balzac, Galdós, Dos Passos.
C´è che scrive per sov-vertire: D.H. Lawrence, Juan Goytisolo, Jean Genet.
C´è che scrive per di-vertire: Sterne, Saki, Diderot.
C´è che scrive per con-vertire: Mauriac, Bernanos, Graham Greene.
C´è che scrive per av-vertire: Swift, Voltaire, Orwell.
Temuto, amato, odiato, lo scrittore nasconde il segreto desiderio di essere, al tempo stesso, un disturbo per il mondo che è, e un creatore del mondo che può essere. Il fine ultimo è, in ogni caso, il lettore e lo scopo dell´autore è avere un effetto sulla vita affettiva del lettore, tendere fra sé e il lettore un ponte per l´intimità anche a costo dell´intimidazione, rinnovare nella lettura lo spirito del lettore e l´esistenza del libro. Perché sappiamo che il lettore, protagonista del post-meridiano, conosce il futuro. Lo scrittore, no. Inoltre, perché lo scrittore consegni un libro al lettore, deve scrivere una letteratura che crei lettori, non una letteratura che conti lettori.
Carlos Fuentes per “la Repubblica” (venerdì 22 maggio 2009)
Sono uno scrittore disciplinato. Ogni sera, prima di andare a dormire, preparo, come un alunno diligente, un foglio con i compiti per il giorno dopo. Tema, personaggi, linguaggio. Il tutto con rigore teutonico.
Mi addormento. Mi sveglio presto. Mi lavo. Mi preparo la colazione. Silvia prepara il pranzo e la cena. Adesso dorme profondamente.
Infine, verso le 7.30, mi siedo a scrivere con il mio schema bene in vista. A mezzogiorno interrompo il lavoro conoscendo quello che ignoravo e ignorando quello che conoscevo. Le cose che ho scritto in quattro ore e mezzo hanno poco o niente a che vedere con la mia razionale lista della spesa della sera prima.
È comparso qualcosa di diverso. Una novità improbabile, una sorpresa oscura, un piacere del già scritto paragonabile solo alla delusione del non-scritto.
Che cosa è accaduto in quelle ore di sonno? Al di là di ogni razionalizzazione freudiana - il sogno distorce, rimuove, simbolizza - posso accettare che in sogno compaiano i morti che abbiamo amato a dirci in segreto quello che non hanno potuto dirci a viva voce. Se è così, vuol dire che nell´atto di sognare non compaiono solo i fantasmi della creazione, ma anche i suoi destinatari, il suo pubblico primo e primario: gli esseri amati.
Sognare è creare perché durante il sonno, che è metà dell´esistenza, si danno appuntamento la gestazione della vita e l´annuncio della morte. Portale privilegiato in cui si stringono la mano i due estremi dell´origine e della fine, come può l´onirico non alterare la discrezione del razionale, introducendovi la propria indiscrezione?
Arrivare a un compromesso che non comprometta il sogno ma che non sacrifichi neppure la ragione apre la porta - una doppia porta, difficile da custodire - fra ciò che rubo al sonno e ciò che do alla veglia, perché anche se credo, illudendomi, di controllare la porta del mattino, non sono sicuro di sapere se sto aprendo o chiudendo la porta della notte.
Una cosa è certa: non si tratta di un processo ostile, né verso di me né verso gli altri. Ed è pericoloso, questo sì, ma solo per me. Se ieri sera sapevo quello che avrei scritto oggi, come scriverò adesso quello che prima ignoravo? Credo che la risposta vada ricercata nell´annosa questione del destinatario della scrittura. Sospetto degli scrittori che, fin dal primo momento, proclamano di scrivere per la gente. E detesto gli scrittori che conoscono la ricetta preconfezionata del successo di vendite. Invece mi sento attratto - come da un abisso, è vero - dall´avventura di un mistero iniziale (per chi scrivo?) o dall´onanismo di una giustificazione solitaria (scrivo solo per me), per approdare, nelle mie sette ore di sonno che sono l´altra metà della vita, alla rivelazione dei destinatari concreti: i più vicini, i più cari, quelli che se ne sono andati seguendo la legge del fiume profondo, ad aspettarci in un tempo senza lancette.
Una nonna del nord del Messico, discendente dagli indios Yaquis, coraggiosa e arguta, piccola e scura, figlia del direttore della Zecca di Sonora, originario di Santander, che le permetteva, da bambina, di scivolare dalla cima di una montagna di monete d´oro. Madre di quattro donne, una di loro era mia madre, vedova prematura di un nonno alto, bello e pallido la cui vita terminò, solitaria e pietosa, in un lazzaretto, costringendo mia nonna a cercare lavoro nella campagna di alfabetizzazione del ministro José Vasconcelos e una volta in pensione, controvoglia, a regalare a noi nipoti i suoi aneddoti fantastici e ai generi il manuale delle buone maniere.(...)
Devo dire grazie a mio padre, e al suo amore per un fratello scomparso, se mi sono avvicinato alla letteratura. Lo zio defunto si chiamava Carlos come me e fu più che una promessa, un brillante e giovane poeta veracruzano, discepolo preferito del poeta Salvador Díaz Mirón. Un ragazzo alto, biondo, serio, che nel 1919, a ventun´anni, fu mandato a studiare a Città del Messico e lì morì di tifo in un paese rivoluzionario e rivoluzionato dove le epidemie della povertà e dell´incuria uccidevano più dei proiettili. La sua morte intristì per sempre la mia nonna paterna, come la morte del marito fece con la mia nonna materna: le ho sempre viste tutte vestite di nero e così, a lutto, compaiono nei miei sogni, ripetendo storie tanto vecchie che ormai sono diventate nuove.
Anche i miei figli entrano nei miei sogni, seppure in modo diverso. Cecilia, la maggiore, è viva e mi aiuta nel lavoro. Natasha, la minore, è morta a 29 anni di una vita impaziente, assetata di conoscenza, frettolosa e mandata giù d´un sorso, inquieta e ribelle verso le mancanze delle persone e l´ingiustizia del mondo. Mio figlio Carlos sperimentò invece l´armonia della vita e la sua vocazione di poeta, cineasta e pittore, accelerando la sua creatività naturale - creò fin dall´infanzia - quando seppe, fin dall´infanzia, di essere mortale, emofiliaco dalla nascita ed esposto, indifeso, a tutti i mali del tempo.
La mia vita è un libro che si regge in piedi grazie a quei due book-end che la sostengono e le danno un senso di origine e fine: Boettiger, mio zio poeta e Carlos Fuentes Lemus, mio figlio poeta, forse i protagonisti più assidui dei miei sogni, al punto che quando mi sveglio e mi metto a scrivere, non so più se quello che scrivo appartenga a me o me lo dettino loro, i miei omonimi dalle vite troncate (...)
Antenati, morti giovani e vecchi. È raro che gli amici appaiano nei sogni. La loro attualità è troppo forte, troppo discreta, per interferire nelle mie notti. Ogni amico è come un Virgilio che mi accompagna alla luce del giorno, a quel perpetuo mattino che è l´amicizia e che si manifesta - ciao, come va, buongiorno, che piacere, che enorme piacere, che miracolo - nella parola non solo esclamata ma semplicemente detta, visto che nell´amicizia scopro che la parola benedetta non è la benedetta parola e nemmeno la disdetta della parola, ma la parola detta.
Byron descrisse l´amicizia come un amore senza ali. Io cerco di restituire le ali all´amicizia che, secondo Dickens, è un uccello che non deve perdere una sola penna, neppure quella con cui scrivo. Sono uno scrittore pre-moderno che non utilizza macchine, ma penna, inchiostro e carta da tenere con sé per averle sempre a portata di mano in aereo, in spiaggia e in hotel. Ha bisogno di altro la parola?
Quel che è certo è che adesso è mattina, fra le sette e mezzo e mezzogiorno, le ore della parola scritta. Quel che è certo è che nella scrittura e nella vita viviamo in un costante scambio di parole. Sappiamo che il mondo ci dà parole e che scrivendo le restituiamo al mondo. Ma la parola scritta non è più la stessa parola data dal mondo: è stata trasformata dal linguaggio, che è di tutti, per dire qualcosa che prima non era di nessuno. (...)
C´è chi scrive per essere amato: Dickens, García Márquez.
C´è chi scrive per essere odiato: Céline, Houellebecq.
C´è che scrive per essere gustato: Saramago, Nélida Piñon, artefici della lingua più gostosa, la lusitana.
C´è che scrive per in-vertire: Balzac, Galdós, Dos Passos.
C´è che scrive per sov-vertire: D.H. Lawrence, Juan Goytisolo, Jean Genet.
C´è che scrive per di-vertire: Sterne, Saki, Diderot.
C´è che scrive per con-vertire: Mauriac, Bernanos, Graham Greene.
C´è che scrive per av-vertire: Swift, Voltaire, Orwell.
Temuto, amato, odiato, lo scrittore nasconde il segreto desiderio di essere, al tempo stesso, un disturbo per il mondo che è, e un creatore del mondo che può essere. Il fine ultimo è, in ogni caso, il lettore e lo scopo dell´autore è avere un effetto sulla vita affettiva del lettore, tendere fra sé e il lettore un ponte per l´intimità anche a costo dell´intimidazione, rinnovare nella lettura lo spirito del lettore e l´esistenza del libro. Perché sappiamo che il lettore, protagonista del post-meridiano, conosce il futuro. Lo scrittore, no. Inoltre, perché lo scrittore consegni un libro al lettore, deve scrivere una letteratura che crei lettori, non una letteratura che conti lettori.
DA R.LO.
9 commenti:
Inquietante l'accostamento della foto di Jack Nicholson, anche se efettivamente in Shining impersonava uno scrittore in cerca di ispirazione.
Non conosco Carlos Fuentes, e non so se un giorno ne leggerò qualcosa, però questo articolo mi ha folgorato. C'è qualcuno che ne ha letto qualcosa? Oltre a questo articolo e a quello che ne dice wikipedia intendo.
Caro Rosario,
di Carlos Fuentes avevamo letto, tempo fa, "La muerte de Artemio Cruz" (in francese), e qualche altro suo scritto, fra cui certi articoli sulla scrittura, romanzo, etc.
Lo trovo molto interessante questo articolo nel post. E la lista dove l’autore utilizza "vertire" per classificare gli scrittori, ci fa riflettere in modo anche di-vertente...
Divertire indica il cambiamento di direzione, il divergere, eccetera.
Nella lista (che si potrebbe allungare) compaiono dei romanzieri. Compresi Diderot e Voltaire, che ne scrissero.
Ora, con scrittore significa altri modi di “essere con la penna” (restiamo a questa).
Prendiamo il poeta. Certo, è uno scrittore. Ma, se resta poeta (non scrive saggi sulla poesia o romanzi etc.), quando resta strettamente poeta voglio dire, come definirlo rispetto alle indicazioni date? - Allora, perché scrive? Nella immediatezza del gesto poetico, più si resta nell'immediato appunto, e meno si potrà affermare che scrive per qualcuno. Addirittura, ci sarebbe una quasi coincidenza tra scrittura e “non esistenza” di eventuali lettori. Un po' paradossale? Si e no. Non siamo poeti, ma cosi vediamo la poesia, perlomeno in quello che ha di più essenziale. Di più spontaneo.
Anche se, poi, questi scrittori, giacché lo sono, possono esprimersi per difendere o denunciare questo o quello... Per dare un idea: pensiamo a qualcuno che si mettesse a fischiettare (che esprimono contentezza e via dicendo). O piangere in un angolo, per altri. E’ soprattutto uno “scrivere” personale ci sembra.
Insomma, siccome ieri ed in altre occasioni si è parlato di scrittura, di poesia, di filosofia, di politica, etc., riflettendo al post, potremmo riassumerci cosi da parte nostra:
- Gli scrittori (romanzieri etc.) di cui Fuentes tratta nell’articolo scrivono, generalmente, per uno motivi da lui indicati, o per due o più fa questi.
- Il poeta, scrive per sé in fondo: esprime... il suo sentire immediato, come si dico qui sopra (anche se per mezzo di rime etc.)
- Il filosofo, per capire... insieme agli altri; essenzialmente, per dialogare, per scambiarsi le idee; alla greca diciamo... - non dimenticando che certi non scrivevano proprio: Socrate ad esempio
- Il politico (questi di oggi ad esempio), soprattutto per farsi eleggere, e cose del genere.
- Il contabile, per fare i conti.
- Il ragioniere, per “ragionare” (uha)
- Etc., generalizzando un po’ e su tutto... evidentemente.
C'ERANO ALCUNE SVISTE: LO RIMETTO (speriamo bene)
Caro Rosario,
di Carlos Fuentes avevamo letto, tempo fa, "La muerte de Artemio Cruz" (in francese), e qualche altro suo scritto, fra cui certi articoli sulla scrittura, romanzo, etc.
Lo trovo molto interessante questo articolo nel post. E la lista dove l’autore utilizza "vertire" per classificare gli scrittori, ci fa riflettere in modo anche di-vertente...
Divertire indica il cambiamento di direzione, il divergere, eccetera.
Nella lista (che si potrebbe allungare) compaiono dei romanzieri. Compresi Diderot e Voltaire, che ne scrissero.
Ora, scrittore significa anche altri modi di “essere con la penna” (restiamo a questa).
Prendiamo il poeta. Certo, è uno scrittore. Ma, se resta poeta (non scrive saggi sulla poesia o romanzi etc.), quando resta strettamente poeta voglio dire, come definirlo rispetto o con le sole indicazioni date da Fuentes nell'art.?
- Allora, perché scrive? Nella immediatezza del gesto poetico, più si resta nell'immediato appunto, e meno si potrà affermare che scrive per qualcuno... Addirittura, ci sarebbe una quasi coincidenza tra scrittura e “non esistenza” di eventuali lettori.
Un po' paradossale? Si e no.
Non siamo poeti, ma cosi vediamo la poesia; perlomeno in quello che ha di più essenziale. Di più spontaneo...
Anche se, poi, questi scrittori, giacché lo sono, possono esprimersi per difendere o denunciare questo o quello.
Per dare un idea: pensiamo a qualcuno che si mettesse a fischiettare (che esprime contentezza e via dicendo). Oppure, soffrire in un angolo. E’ quindi, soprattutto uno “scrivere” personale ci sembra.
Siccome ieri ed in altre occasioni si è parlato di scrittura, di poesia, di filosofia, di politica, etc., riflettendo al post di oggi, potremmo riassumerci cosi, da parte nostra:
- Gli scrittori (romanzieri etc.) di cui Fuentes tratta scrivono, generalmente, per uno motivi da lui indicati; o per due o più fra questi.
- Il poeta, scrive per sé in fondo: esprime... il suo sentire immediato, come dico qui sopra (anche se per mezzo di rime etc.)
- Il filosofo, per tentare di capire insieme agli altri; essenzialmente, per dialogare, per scambiarsi le idee; alla greca diciamo... - ma non dimenticando che certi non scrivevano proprio: Socrate ad esempio.
- Il politico (questi di oggi), soprattutto per farsi eleggere, e cose del genere.
- Il contabile, per fare i conti.
- Il ragioniere, per “ragionare” (uha)
- Etc. etc. generalizzando (un po’) su tutto qui... evidentemente.
J.
---
p.s.
dove accenno alla rima:
questa, in quanto messa in forma... (versificazione etc.), veniva dopo. Certo, il fatto di aggiustare secondo la metrica, e via dicendo, puo' farci credere che lo scrivere poetico sia destinato, come gli altri, ai lettori...
Ma, per ritornare all'essenzialità poetica... al primo getto... se vogliamo dirla cosi, mi pare che è, soprattutto, un "avvenimento"... personale.
Parlo di rima ma questo vale anche per il verso "libero" (più o meno lavorato, poi)
Fermo restando che lo scritto è, alla sua origine, in quanto segno, un mezzo per comunicare, per trasmettere agli altri: messaggi etc. Beninteso.
Aggiungo, allora, che in quanto dico sopra deve giocarci anche il fatto che i poeti mi piace vederli in questo modo, "ingenuo"...
Esimio J,ckx, in ultimo ti riallacci a qualcosa già scritto sul blog della prof... repetita...
In base all'articolo, la scrittura di Fuentes per me potrebbe legarsi al realismo magico di Marquez, ma forse mi sbaglio e tu sei stato evasivo sul mio domandare.
Boh non so, non mi convince ciò che dici.
Per me la scrittura è un tormento. Il bolo che si aggruma nella mia mente mi fa deragliare, s'impossessa di me. Solo il conato della scrittura mi restitusce alle mie facoltà senza riappacificarmi con il mondo però. Il labor rimae oraziano ( anche se non scrivo versi) la mia vera ossessione. A volte mento a me stesso per scrivere, convincendomi che ciò che scrivo non vale la pena di essere nè scritto ne letto.
Certo c' è la poesia e poi c'è la poeticità, quella di cui tu parli , e che la puoi cogliere dove vuoi, e come per un transfert il poeta diventa colui che guarda, legge, vive.
E poi ci sono le regole, la forma, gli steccati non solo come autodisciplina ( penso a Perec e Queneau).
Il verso libero ha creato molti falsi poeti, tant'è che molti rintracciano la "poesia" nelle canzoni, ma spesso la poeticità di quelle canzoni sta nella melodia, nella voce...
Non so chi sia veramente uno scrittore, anche se non necessariamente, deve scrivere romanzi o versi. Quanti saggi sono scritti da cani.
Ecco ho parlato di altro come al solito ma ci sarà di che tornarci su.
Saluti accolarati e non certo accaldati.
Carlo Fava:cofani e portiere
http://www.youtube.com/watch?v=WEDJKii5j18
N. B.
Quello che ho detto sopra, sul tormento della scrittura, spiega la differenza tra uno scrittore e uno scribacchino. Superflueo indagare su chi sia lo scribacchino.
caro Rosario,
come leggo, mi sembra che hai un dono... per certi p.s., e mi chiedo: sono di una fatalità certa o, piuttosto, di una certa fatalità?
Voglio dire: non sarebbe questione delle nostre pieghe rispettive? E là, della tua? (parlo di pieghe, e non di piaghe)
Parlo dello scrittore. Sugli scribacchini, siamo dunque intesi...
Un po' di pazienza... e ti scrivo altro qui: un paio di pagine. Le ho già buttate giù ad una cadenza "infernale" poveri tasti, ma se non li correggo non so più nemmeno dov'è l'inizio...
Giusto questo per il momento: dici che non sei d'accordo con me, ok. Ma, non parlavo di immediatezza sopra (insistendoci)?
Mi domando, allora, a proposito del tuo tormento, bisogno vitale, deragliamento, eccetera, come tutti questi sentimenti, viscerali per riassumere, come questo tuo modo d'essere, nello scrivere, possa essere contraddittorio o antitetico con quella, con quanto dicevo sull'immediatezza, eccetera.
Non vedo a cosa ti riferisci sul blog della Prof... (?)
(Sono un po' stanco abbiamo aiutato un amico a impacchettare libri e mobili.)
Per Carlos Fuentes, cosa vuoi che ti dica? Innanzitutto, non sono un esperto in letteratura. Anche se ho letto cose sul romanzo, la poesia, come pure, per quanto accenni, sul realismo magico - e letto parecchi autori sudamericani.
A fra non molto.
J.
William Parker's Inside Songs of Curtis Mayfield -- "It's All Right!" Vision Festival 2008
http://www.youtube.com/watch?v=0dJrNTq-V2E
Sainkho Namtchylak - Midnight blue
http://www.youtube.com/watch?v=JY9QiBesbsM
Naked City - Once Upon A Time In America (Ennio Morricone)
http://www.youtube.com/watch?v=fvYARGSKNYQ
Belli i video.
Non riesco a correggere per il momento quanto dicevo ieri sera. Forse, stasera.
Queste due pagine, tentano di approfondire un po' tutte queste cose.
Intanto, un altra cosa che trovo molto molto interessante. Quanto Rosario dice a proposito del verso libero (a cui accennavo più sopra).
Caro Rosario, ti cito:
"Il verso libero ha creato molti falsi poeti, tant'è che molti rintracciano la "poesia" nelle canzoni, ma spesso la poeticità di quelle canzoni sta nella melodia, nella voce..."
Penso la stessa cosa. Infatti, come tu scrivi,lo si vede bene con la melodia.
Pensiamo, ad esempio, a tanti cantautori che amiamo...
Ora, se lo dico, anzi lo ridico (da "secoli"), è perché è successo, con questa storia del verso libero, quant'è successo con altre cose dove viene pronunciata la parola magica: "libertà", che tanto ci piace.
In, breve, apriti sesamo. E via con le semplificazioni, ad oltranza.
A tal punto che, in certi casi, si è fatto più o meno coincidere "rima", etc., con "prigione"...
Con oppressione, o mancanza di spontaneità, o le due, o più altre, e via dicendo.
Inutile continuare, penso. Le implicazioni dovrebbero essere assai evidenti.
Si parlava, insomma (mi sembra) con faciloneria assai inenarrabile... condita con massicce dosi di ingenuità: politica o altra; in nome, dunque, della libertà... Anche quando questa era affermata, difesa in tutta innocenza, con onestà diciamo, all'interno di concezioni, di idee della vita... che a ben rifletterci, la limitavano. Per non dire mutilavano.
Mi piacerebbe approfondire tutte queste cose. Con esempi precisi. Con quanto si è potuto sostenere.
Ci vorrebbe tempo,
eccetera.
Da là, lo dico per inciso, il bisogno (cosi come lo sento), di discutere, di "filosofare"... In breve - il che è praticamente quasi la stessa cosa - di rifletterci, insieme.
Buona giornata, o Popoli di Mariani delle 7 Montagne.
Ah, cara Redazione, quando ce la rimettete la zattera? Ci piace la grafica, ok, ma quella, la vela, ci manca!
Pirati senza vela... Ma si puo'?!
J.
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