24 aprile 2009

25 APRILE

IL BLOG “ACRI A GONFIEVELE” PARTECIPA ALLA FESTA DI LIBERAZIONE DEL 25 APRILE PROPONENDO SCRITTI ED IMMAGINI SULL’ANTIFASCISMO E SULLA RESISTENZA. TENIAMO A SPECIFICARE CHE NOI, COME TANTE ALTRE PERSONE, CELEBRIAMO QUESTA RICORRENZA GIORNO PER GIORNO, NELLA NOSTRA QUOTIDIANITA’. ED E' CERTO CHE NON SARA' QUESTO APPUNTAMENTO "ISTITUZIONALE", RESO SUPERFICIALE PERCHE’ VISSUTO COME TALE, CHE CI RICORDA L’IMPORTANZA DI ESSERE ANTIFASCISTI E RESISTENTI.


IL BLOG “ACRI A GONFIEVELE”

La Resistenza Tradita
Ha ancora un senso parlare di Resistenza Partigiana e del 25 Aprile del ’45? Ha ancora un senso parlare di Antifascismo in quest’Italia dei giorni nostri? Sinceramente credo di sì. Eppure i motivi per rimanere perplessi di fronte agli avvenimenti degli ultimi anni sono tanti, ad incominciare dalle manifestazioni per la festa della Liberazione e dalle puntuali polemiche prima durante e dopo. Divisioni, nuove intese ed alleanze del e nel quadro politico contribuiscono al clima di confusione. I fascisti d’un tempo sono gli antifascisti di oggi e le riappacificazioni auspicate a destra ed accolte a sinistra o viceversa, nonché una certa letteratura revisionista, contribuiscono alla confusione, tanto che vincitori e vinti appaiono un tutt’uno. Non che gli storici non possano ritornare sulle pagine più o meno oscure della resistenza ma non spetta certo ai politici italiani, rileggere la storia (in una chiave chiaramente strumentale, ognuno a modo suo e pro domo sua) oppure propagandare all’uopo liste di proscrizione su libri di testo da interdire, in una scuola peraltro, dove la conoscenza della storia, della letteratura, delle scienze... si ferma spesso e volentieri a prima della prima guerra mondiale. Peraltro, i lasciti della Resistenza nel cinema, nella letteratura, nella società e nella cultura italiana in genere non che siano stati pochi, anzi.
L’eredità più importante della Lotta di Liberazione risiede ovviamente nell’assetto costituzionale del nostro stato. Le attese del popolo italiano, liberato finalmente dalla guerra, dall’occupazione tedesca e dal fascismo, trovarono nell’Assemblea Costituente, uno sbocco. La Costituzione della Repubblica Italiana, approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre del 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, non è forse il frutto più importante di quel momento storico? Culture politiche diverse, attraverso la stesura della carta fondamentale (fondativa dello stato italiano), non solo ripristinarono le libertà politiche cancellate dalla ventennale dittatura fascista, ma recepirono quei diritti che avrebbero dovuto assicurare l’eliminazione delle disuguaglianze socio-economiche tra i cittadini. Se la Costituzione italiana era e rimane palesemente progressista nelle sue formulazioni di principio (i cosiddetti principi fondamentali) è tuttavia mancata la capacità e/o la volontà di tradurre quei principi in realtà. Nelle sue Istituzioni di diritto pubblico, nel 1969, Costantino Mortati così scriveva: “La forza di rottura, potenzialmente contenuta nel testo costituzionale, radicalmente innovatore rispetto non solo alla ideologia fascista ma anche a quella liberale, non ha trovato energie sufficienti a metterla in opera, sicché la costituzione materiale, quale si è di fatto realizzata, ha privato di efficacia, non solo e non tanto singoli precetti costituzionali, quando la sua più profonda essenza.” Si può dire, forse, che sta in questo il più grande tradimento degli ideali /valori della Resistenza. Un tradimento che peraltro continua. Come se non bastasse negli ultimi anni non sono mancate le occasioni, per mettere le mani sulla stessa Carta, non che non sia lecito e possibile (nelle forme e nei modi disposti dalla stessa), ma di fatto stravolgendone l’intero assetto. Spesso si è espressa la volontà, a destra e a sinistra, di intervenire sulla seconda parte, ma ci si dimentica che ciò è già stato fatto. La riforma costituzionale del 2001 (convalidata dal referendum del 7 ottobre del 2001) ha modificato 9 articoli del Titolo V della Seconda Parte, concernenti l’ordinamento territoriale italiano. Se questa riforma, tuttora vigente, è opera dell’Ulivo, qualche anno dopo (2005) la Casa delle Libertà ci ha riprovato. Quel progetto di riforma è stato bocciato dal voto popolare nel referendum del 25/26 giugno 2006. E cosa dire della legge elettorale c familiarmente nota come «porcellum» (calderoliano), impedisce agli italiani di scegliere chi eleggere? Non so se sia il caso, ma c’è chi lo pensa, di parlare di democratura (una sorta di dittatura mascherata da democrazia) ma certo è che lo spirito della Resistenza in questo nostro paese è stato sistematicamente disatteso. Ad ulteriore riprova di quanto scritto non si possono dimenticare i continui attacchi del potere esecutivo all’equilibrio tra i vari poteri dello Stato.
Chiedersi quindi se i valori e gli ideali della Resistenza siano stati traditi ha un senso soprattutto dalle nostre parti e soprattutto oggi. Il mezzogiorno d’Italia ha vissuto quella fase storica solo marginalmente se non di riflesso, e probabilmente è da individuare anche in questo la scarsa coscienza civile, democratica, nazionale di noi meridionali. Con la caduta dei regimi comunisti, la scelta della Bolognina e la graduale nascita del Partito Democratico e il metodico suicidio inscenato dalla sinistra cosiddetta radicale, si è assistito ad un vero smantellamento di qualunque esperienza riconducibile al comunismo o alla sinistra in senso più lato, che pure larga parte hanno avuto nella guerra partigiana, nell’Assemblea Costituente e nella Costituzione. Essere cittadini liberi in un’Italia sana, passa innanzitutto per il riappropriarsi del significato e dell’importanza della Resistenza e di tutti i valori messi in campo, non per benedire surrettiziamente un nuovo clima di condivisione ma per cominciare ad operare finalmente dei distinguo.

Rosario Lombardo


ANTIFASCISMO ED ACRI
Sabato si rinnova il ricordo di una data, il 25 Aprile giorno della Liberazione,
liberazione dal fascismo istituzionale, liberazione da una dittatura che spinse
ciecamente alla morte . I partigiani agirono seguendo un ideale, quello della
giustizia sociale. Questo ideale nasceva da una tragica incertezza e da una
reale condizione che spingeva la gente alla ribellione. Gente di umile condizione
sociale, sacrificando la propria vita, si trasferì in montagna, e non solo,
a combattere per liberare l'Italia dall'oppressione naziclericofascista.
Ad Acri una parte degli "antifascisti", appartenenti alla classe nobiliare e "acculturata", senza mai aver mosso dito durante tutto il ventennio, il giorno della Liberazione si fregiò di tutti gli onori affinchè potesse perdurare il suo potere e molti fascisti cambiarono colore alle loro camice ritrovandosi ancora oggi nella cerchia del potere. Anzi, uno dei nostri letterati più "illustri" nel 1938 tenne delle conferenze sulla razza presso l' "Istituto di cultura" di Cosenza.
Oggi vogliamo ricordare un partigiano acrese che perse la vita sul Mortirolo, nel
bresciano, il 14 Aprile 1945, Giuseppe Algieri nato ad Acri 6 aprile del 1924.
Egli si era arruolato nelle 'Fiamme Verdi', il suo nome in battaglia era "Cosenza" .

La sua ultima lettera scritta il 30 Aprile 1944:
Cara mamma dopo 18 mesi credo che ricevete posta io sto bene così spero
di voi tutti io mi trovo in Italia sulle montagne non avete pensieri per me
ritorneremo.
Io fino a ora sono stato in Germania prigioniero non posso raccontarvi quello
che ho passato ma spero un giorno di raccontarvelo a voce.Cari genitori non so
ancora come mi trovo vivo di tutto quello che mi hanno fatto i tedeschi ma spero
di vendicarmi e spero che mio fratello combatterà questa gente maledetta.
Spero che non vi sia successo niente a tutti voi io sto bene e sto meglio di prima
e si respira aria fresca.
Siamo sul Trentino a combattere quelli che fanno soffrire tutto il mondo speriamo
che si finisca presto così possiamo abbracciarci ancora e passare quei bei giorni
insieme.Io questa lettera la mando per due piloti americani che sono qui e vengono
in Italia non ho altro che dire saluti e baci...(ai familiari tutti).

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Quando la Resistenza parlava calabrese
La Resistenza e le sue celebrazioni sono state sempre presentate come un fenomeno “nordico.
Certamente fa eccezione la città di Napoli, con le sue gloriose quattro giornate, dove la popolazione stanca dei sopprusi dei nazi-fascisti risorge in modo spontaneo improvvisando in diversi punti della città battaglie e alzando barricate. Napoli, infatti, ebbe ancora una volta il suo glorioso masaniello, Gennaro Capuozzo di appena dodici anni; di lui si narra che impadronitosi di una mitragliatrice fece strage di nazisti prima di finire crivellato dai colpi degli aguzzini.
Sebbene gli eventi più importanti si svolsero prevalentemente nelle regioni del Centro-Nord bisogna considerare il contributo di sangue dato da cittadini meridionali alla lotta di liberazione. Dagli studi storici che hanno analizzato le bande per composizione sociale, si evince che furono circa 4.000 i partigiani meridionali in Piemonte di cui 600 furono calabresi. Qualche altro migliaio furono in Liguria.
La maggior parte di loro erano operai immigrati, altri furono ex militari sbandati dall’esercito dopo la firma dell’armistizio (8 settembre 1043).
A Genova uno dei primi organizzatori dei nuclei di montagna e teorico della necessità della lotta armata al regime fascista fu il calabrese Antonio Rossi, nato a Cardeto; già nel 1942 fu arrestato con l’accusa di propaganda sovversiva.
Vi furono tante brigate comandate da calabresi, quella più nota a tutti fu quella in cui operarono i fratelli Francesco, Italo, Bruno e il padre Oreste Rossi.
Oreste Rossi cadde fucilato da un plotone d’esecuzione a Castagneto Po a Torino (medaglia d’argento al valore militare). Italo fu insignito della medaglia d’oro al valore militare alla memoria. In suo onore fu soprannominata una divisione della 1° brigata Matteotti, la “Italo Rossi” appunto.
Per quanto riguarda Parma si hanno notizia di Vincenzo Barreca, classe 1920, dopo l’8 settembre, rientrò dalla Francia e raggiunse Col di Ferro (Cuneo), fino ad approssimarsi a Tortona ed operare nalla Val Cisa. Lo stesso Barreca dichiarò che del plotone della 2a brigata Beretta (Divisione Val Cisa), della quale era vicecomandante, con il nome di battaglia di “Zambo”, facevano parte i partigiani calabresi Francesco Giugno, proveniente da Natile Nuovo (Platì, RC), nome di Battaglia “Attila”; Salvatore Rizzo di Campora di Amantea (CS), nome di battaglia “turiddu”, Rocco Marfì, nato a Laureana di Borrello, classe 1922 (Rc); Salvatore Carrozza, da Taurianova, classe 1911, morto a Monticelli Terme (Pr) il 18 aprile 1944, 12a Brigata Garibaldi; Bruno Geniale, da Cosenza, classe 1923, 12a Brigata Garibaldi, deportato e morto nel campo di Mauthausen 18 marzo 1944; Vincenzo Errico, detto “Vitto”, da Verbicaro (Cosenza), classe 1922, 1a Brigata Julia, caduto a Grifola (Borgotaro) l'8 luglio del 1944 durante un combattimento contro reparti tedeschi che tentavano di raggiungere Borgotaro provenienti dal versante ligure.
Onore e gloria per tutti coloro che hanno combattuto dalla parte “giusta” per difendere il diritto la libertà contro i nazi-fascisti.


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Mi sento in dovere di riscrivere una confessione molto toccante, quella del partigiano “Freccia”. Rimansto anonimo. Dopo l’8 settembre costretto a darsi alla macchia, si arruolò nella 31 brigata Garibaldi, squadra guastatori di “Donatello” di Fornovo Taro, con il nome di battaglia “Freccia”.

Nel febbraio del 1945 racconta: “eravamo in queste condizioni: senza alloggio, senza cibo; gli unici a darci da mangiare erano i contadini, ci davano pane, salame e pasta e ce li portavano nelle stalle (perche se i nazisti scoprivano che avevano dato alloggio li avrebdero fuciliati e bruciato le loro case; e c’è da dire che i nazisti venivano portati sul luogo dai fascisti italiani).

"Non avevamo né vestiti né scarpe e l’aiuto era sempre dato dai contadini, tuttavia, a volte, quando non riuscivano a trovare scarpe da darci ci dovevamo arrangiare e c’era chi addirittura si costruiva le suole delle scarpe con la crosta del parmigiano.

"Non dimenticherò mai il coraggio e l’umanità di questi contadini che rischiavano la vita e tutto ciò che possedevano per aiutarci e nasconderci nei loro fienili in nome di un ideale di libertà e di pace. […] Che dire della traversata in piena notte del fiume Taro che era pure in piena nel mese di gennaio (1945) con le armi sulla testa e la neve alta alle sponde del fiume e tutto ciò a piedi, non a cavallo certamente, per entrare in azione contro i nazisti? Io ho lottato rischiando la pelle e affrontando duri sacrifici e ne ho viste di tutti i colori per avere la libertà”.

“Libertà di esistere, di pensare e agire senza dover subire soprusi, abusi e sopraffazioni. In questa libertà io credo ancora oggi, indipendentemente da qualsiasi formazione politica”. (firmato un partigiano della 31a brigata “Garibaldi").

[Raffaele D'Angelo]

Fonti:
Enzo Misefari, “Partigiani di Calabria”, 1988 , Martina Franca (Ta), Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea
Rocco Lentini – Nuccia Guerrisi , “I Partigiani Calabresi nell’Appennino Ligure Piemontese”, 1996, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (Cz).
Roberto Battaglia, “Storia della Resistenza Italiana”, 1974, Giulio Einaudi Editore, Torino.


DONNE PARTIGIANE
Le donne, che il fascismo aveva relegato al
ruolo di mogli e riproduttrici, che aveva
escluso da certi studi superiori, dai concorsi
pubblici per uffici direttivi, dall’insegnamento
di materie come lettere, filosofia, storia,
che aveva rafforzato (come se ce ne fosse stato
bisogno) la potestà maritale e la patria potestà,
si ritrovarono con la guerra, con gli uomini al
fronte, a dover gestire totalmente la propria vita,
quella dei figli e spesso degli anziani. Dovettero,
per sopravvivere trovarsi un lavoro,
cercare una casa per sfuggire ai bombardamenti,
arrangiarsi nella ricerca del cibo che diventava
sempre più scarso.
È quindi naturale per le donne prendere coscienza
e schierarsi dopo l’8 settembre a fianco
dei giovani che, sbandati e in divisa, cercavano
di tornare a casa; naturale nasconderli, sfamarli,
nascondere i militari angloamericani, gli
ebrei; essere a fianco e in molti casi partecipare
direttamente alla Resistenza.
La partecipazione delle donne fu presente in
tutte le forme della lotta di liberazione: furono
staffette, infermiere, combattenti, aiutarono
anche soltanto con un bicchiere di latte e un
pugno di castagne il partigiano che scappava
dal rastrellamento.
4653 furono le donne arrestate, condannate,
torturate, 2750 le donne partigiane deportate
nei campi di sterminio, 2000 le fucilate o cadute
in combattimento, 18 le medaglie d’oro.
Si può dunque tranquillamente affermare che
se non ci fossero state le donne la Resistenza
non avrebbe potuto sopravvivere.
Il contributo delle donne alla Resistenza diede
e continua a dare i suoi frutti.
Il diritto di voto, primo gradino della piena
uguaglianza, era stato raggiunto.
La Costituente fu uno spartiacque fra la condizione
di minorità giuridica e sociale in cui erano
tenute le donne e una condizione nuova che
avrebbe trovato garanzie in diversi articoli della
Costituzione e nelle leggi (parità salariale,
diritto di famiglia, divorzio, ecc.) che in questi
62 anni abbiamo conquistato.
Concludo con l’ultima parte dell’intervento
che Tina Anselmi fece a Roma il 26 gennaio
1995 al Convegno “Donne, fascismo, democrazia”:
“…
Ma le conquiste non sono mai definitive… attenzione,
quello che è stato ottenuto, quello che abbiamo
scoperto, quello che abbiamo realizzato, non
sono conquiste che non possono essere distrutte se
una cultura nel paese non si rifà a questi valori che
ieri hanno animato la Resistenza e che oggi devono
animare la nostra vita democratica… Se abbiamo
conquistato il diritto di esserci, dobbiamo ogni giorno
esercitare il dovere di esserci. Questo ci ha insegnato
la Resistenza”.
Questo è ciò che noi donne dobbiamo fare,
per noi, per le donne di domani
e per le donne di oggi che in altri paesi
conducono la propria esistenza in
estrema povertà, private dei diritti
fondamentali e in molti casi vivono
in prima persona
la tragedia della guerra.


Madel Monti




Ancora in montagna

1945-1947: insorgenze partigiane dopo il 25 aprile

Attorno alla data del 25 aprile 1945, considerata e celebrata come l'anniversario della Liberazione, permangono ancora molti equivoci e rimozioni, dettate da un evidente utilizzo politico della storia. La principale mistificazione, da un punto di vista storico, riguarda proprio la data stessa del Venticinque Aprile con cui si vorrebbe far iniziare e concludere l'insurrezione popolare contro il fascismo e l'occupazione nazista, negando che quella guerra civile e sociale aveva un "prima" e, soprattutto, che conobbe un "dopo" tutt'altro che composto e riconciliato sotto la bandiera della cosiddetta pacificazione nazionale.Uno dei fatti che contraddicono palesemente questa rassicurante ricostruzione del passato è l'esperienza, comune a migliaia di partigiani, che, a più riprese e in numerose località, tornarono sugli stessi monti dai quali erano discesi nell'aprile del '45. Nacquero così estesi movimenti di rivolta armata contro il governo espressione dei partiti che, durante la resistenza, avevano fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale.Le ragioni di tale ribellione erano molte: dalla mancata epurazione dei fascisti all'amnistia nei loro confronti firmata dal guardasigilli Togliatti (Decreto presidenziale del 22 giugno 1946), dalla criminalizzazione dei reduci partigiani e antifascisti alla loro emarginazione sociale, dalla mancanza di provvedimenti legislativi a favore degli ex-internati nei lager al deludente clima di restaurazione capitalistica ancora una volta a danno della classe lavoratrice.Il primo e più consistente episodio scoppiò nell'agosto del 1946 nell'astigiano, a seguito della destituzione del capitano Carlo Lavagnino, già comandante partigiano entrato nella polizia ausiliaria. Infatti, nell'intento di normalizzare una situazione per molti aspetti fuori controllo, sin dagli inizi di maggio del '45, era stato emanato un decreto per l'inquadramento di circa 8 mila partigiani nelle forze di polizia ma il ministro dell'Interno, il democristiano Mario Scelba, aveva fatto celermente annullare tale provvedimento. Contro la discriminazione di Lavagnino, una trentina di suoi ex compagni "garibaldini" non disposti ad obbedire a un ex ufficiale della polizia fascista, occuparono in armi, assieme ad altri duecento partigiani solidali, il paese di Santa Libera, impervia frazione nel comune di Santo Stefano Belbo, tra le province di Cuneo e Asti.Poche settimane prima, proprio ad Asti, era stato diffuso un volantino a firma del Comando 1° GAP, da cui era rilevabile il clima esistente in ampi settori partigiani: "Se i diritti del popolo, i sacrosanti diritti di chi ha sempre sofferto, di chi altro non chiede che di poter lavorare e vivere in un mando fatto di giustizia, di eguaglianza, di libertà non verranno immediatamente riconosciuti, noi riprenderemo le armi per la seconda guerra di liberazione".Appena cinque giorni dopo il 20 agosto, quando il gruppo guidato da Armando Valpreda, ex partigiano di Giustizia e Libertà, si era stabilito a Santa Libera, la sollevazione risultava in rapida estensione. Sui monti di Asti si erano raccolti almeno 400 partigiani, mentre altre bande stavano ridandosi alla macchia con le armi mai riconsegnate alle autorità, oltre che in Piemonte (Val Pellice, Bagnolo, San Secondo, Pinerolo, Monastero di Lanzo), anche in Liguria, Lombardia e Veneto.A La Spezia, il movimento insurrezionale, guidato da Paolo Castagnino, un graduato ausiliario della Ps, sarebbe durato sino 3 settembre. Al confine tra le province di Alessandria e Pavia, al Brallo, prendeva posizione un gruppo di circa 130 uomini, dotati di armi pesanti e persino di un autoblindo che, a storia finita, pare sia finito nel Po.Manifestazioni di solidarietà si svolsero in piazza a Cuneo, Alessandria, Torino, Aosta, Sondrio, Genova, Pavia.Scontri e incidenti avvennero, secondo la testimonianza del socialista Pietro Nenni, a Dozza Imolese, Piacenza e Mantova, dove 200 partigiani avevano ripreso le armi tornando alla macchia. A Genova un reparto della milizia ferroviaria, composto in larga parte da ex partigiani, si era impadronito delle armi mentre a Milano Lambrate avevano fatto la loro comparsa camion carichi di partigiani armati.Per le autorità di polizia, al 29 agosto, erano circa 1.300 i partigiani che avevano ripreso le armi in varie province del Nord (Asti, Cuneo,Torino, Pavia, Sondrio, Verona); ma tale numero appare inferiore alla realtà, dato che in successivi rapporti si segnalavano ulteriori bande armate in altre province non menzionate in precedenza (Alessandria, Brescia, Massa Carrara, Modena, Varese, Vercelli).Il governo De Gasperi, allarmatissimo, faceva circondare le zone ribelli dalle forze di polizia e ordinava l'arresto dei capi partigiani per "insurrezione armata". Il PCI condannava sui propri giornali l'agitazione come una trama eversiva di destra ad opera di "ignoti provocatori", pur se il dirigente comunista Scoccimarro ebbe ad affermare che tale movimento era guidato da "trotzkisti e spartachisti". Intanto, per mediare con gli insorti si attivavano gli esponenti socialcomunisti più rispettati quali, oltre a Nenni, Pietro Secchia e Davide Lajolo. Il 27 agosto a Milano si radunarono i comandanti di 77 formazioni partigiane per solidarizzare con la ribellione in atto e per negare fiducia alla politica conciliatoria e subalterna dell'ANPI. Su proposta dei militanti della Federazione Libertaria Italiana (raggruppamento effimero, nato da una scissione della FAI) e dell'Unione Spartaco (organizzazione socialista indipendente romana, guidata da Carlo Andreoni), fu quindi dato vita ad un autonomo Movimento di Resistenza Partigiana.Dopo questa presa di posizione, 28 formazioni presero posizione sulle Prealpi, diffidando carabinieri ed autorità da eventuali tentativi repressivi, mentre anche la Federazione nazionale combattenti e reduci dei campi di sterminio dichiarava il suo appoggio al movimento.In una riunione del 28 agosto il governo era quindi costretto a prendere provvedimenti a favore dei partigiani, tra i quali la libertà provvisoria per gli antifascisti detenuti in seguito ad azioni armate compiute sino al luglio '45 e l'accettazione degli ex combattenti della resistenza negli organici della polizia. Per comunicare tali decisioni al movimento partigiano, l'esecutivo inviava a Milano il ministro della difesa Facchinetti. Ma l'entusiasmo durò poco dato che entrambe le concessioni si dimostrarono presto una beffa: vennero soddisfatte solo alcune rivendicazioni normative a favore dei combattenti, dei reduci e dei familiari dei caduti; ma quelle più politiche quali la contestata amnistia ai fascisti, la soppressione del movimento dell'Uomo Qualunque, divenuto una copertura per molti fascisti, e il controllo dal basso dell'operato dei prefetti, restarono lettera morta, così come restava irrisolto il problema della disoccupazione.Gli ultimi gruppi di resistenti smobilitarono solo in settembre, tra cui un gruppo nel viareggino, comandato da Antonio Canova, salito tardivamente in montagna. Ma non era finita: attorno al 18 ottobre, su iniziativa del M.R.P. una quarantina di ex partigiani della Divisione Cesare Battisti si concentrò a San Bononio, frazione montana del comune di Curino (Vc) contestando ancora una volta l'amnistia Togliatti e l'emarginazione dei combattenti antifascisti. Motivazione ufficiale dell'iniziativa: ricostruire autonomamente una strada locale e realizzare opere di rimboschimento nella zona. La protesta si concluse dopo una settimana, con la repressione: il 24 la polizia chiudeva la redazione del giornale del M.R.P., mentre una colonna motorizzata si recava a Curino arrestando Carlo Andreoni e altri presunti capi del movimento con l'imputazione di "rivolta contro lo Stato" che, dopo una decina di giorni, vennero rilasciati per non innescare nuove sollevazioni.Verso gli organizzatori di quest'ultimo tentativo e i partigiani che vi avevano partecipato, l'atteggiamento del PCI fu di totale avversione, giungendo ad utilizzare accuse infamanti, quali quelle di "neofascisti", "provocatori", "banditi di strada", "agenti della monarchia" (come testimoniato dagli articoli pubblicati in quei giorni su «l'Unità»), tanto che a difesa dell'identità degli insorti, tra cui molti partigiani di tendenza socialista, intervenne pubblicamente Sandro Pertini. L'ostilità del PCI arrivò persino all'aperto collaborazionismo con i carabinieri nella repressione dei gruppi partigiani dissidenti nelle province di Bologna, Modena e Reggio Emilia. Emblematiche di tale volontà repressiva le parole di Osvaldo Salvarani, comunista ed ex comandante partigiano nel reggiano: "Il compromesso deve cessare, i partigiani-briganti neri debbono essere arrestati e imprigionati". Episodi analoghi di ribellione, pur di minore entità, sarebbero stati registrati ancora nel maggio e nell'ottobre del '47 nelle province di Novara e Biella, con la mobilitazione di centinaia di ex partigiani ed il loro ritorno sui monti. Tali focolai di rivolta, puntualmente sconfessati dall'ANPI e dal PCI, furono isolati dalle forze della repressione statale, mentre la Resistenza veniva condannata a vivere solo nel mito.


Emmerre


Bibliografia utilizzata:

- Pier Giuseppe Murgia, Il Vento del Nord, Sugarco, Milano, 1975;

- Maurizio Lampronti, L'altra resistenza, l'altra opposizione, Lalli, Poggibonsi 1984;

- Massimo Storchi, Combattere si può vincere bisogna, Marsilio, Venezia 1998;

- Mirco Dondi, La lunga liberazione, Editori Riuniti, Roma 2004;

- Mimmo Franzinelli, L'Amnistia Togliatti, Mondadori, Milano 2006;

- Silvia Grossi e Roberto Lodigiani, I ribelli di Santa Libera, nella rivista "Storia e dossier", n. 164.












2 commenti:

libero-news.it ha detto...

Non ne posso più di questa overdose di valori


| PRIMA PAGINA | Vittorio Feltri
Pubblicato il giorno: 26/04/09

Quest’orgia di valori è nauseante. I valori della resistenza, i valori della Costituzione, i valori della famiglia, i valori del cristianesimo... I valori i valori i valori. Più ne parlano e più li strapazzano e meno si ha la percezione di cosa siano. Nel linguaggio politico sono diventati luoghi comuni, tic lessicali, banalità, moneta bucata. Quando uno, nell’affanno di dover esprimere un concetto o concludere una frase, incespica e sta per annegare nel proprio eloquio stenterello si aggrappa al primo valore che gli viene in mente. Un ragazzo uccide la fidanzata o la mamma o il fratello o un amico o un passante? Chi è chiamato in tivù a commentare la tragedia, dopo aver dato fondo al bagaglio delle banalità, aggrotta la fronte e con aria da pensatore stitico afferma: il problema è che i giovani di oggi non credono più nei valori, nel valore della vita. Applausi del pubblico. Ogni uomo di partito si appella ai valori: i valori della destra, i valori della sinistra, i valori della democrazia, i valori della Patria. E i valori immobiliari? Quelli non si esaltano, si accumulano. Di Pietro ha addir (continua)...

resistenzaitaliana.it ha detto...

Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana

http://storiaxxisecolo.it/documenti/documenti7.html