21 gennaio 2009

INCIPIT DI "I LOVE YOU UN CORNO!"


Inchiodati ad un’unghia e mezza dalla tivù, nell’abitudine sconclusionata e snervante della cena, il roboante sonoro del tiggì santificava il ricongiungimento familiare. Si cenava alle otto in punto, al piano di sotto, nell’umile dimora con portone blindato e targhetta d’ottone, a caratteri cubitali il nome e cognome dell’egregio dottor ingegnere. Fra il garage e la dispensa delle damigiane d’olio e vino scrupolosamente in fila, le bottiglie di conserva, cascetti chjini e vacanti: …ca nenti avastari, c’abbunnanzia gheri cumu a scarsienzia! La scavolini del piano di sopra, immacolata nel suo cellophane, una spudoratezza andarla a rovinare, …ché ci sarebbe stato da lavare, lustrare, igienizzare. Meglio lasciar stare, senza perder tempo a sistemare e riaggiustare i lembi d’una plastica che al solo sfiorarla causava insolite sensazioni tattili di salutare benessere: …bbrrr!!!
Nel seggiolone chicco il bebé sputacchiava il suo nipiol. La sbobba inorgogliva la premurosa nonnetta, sollecita ad imboccarlo. A liminusa i ra mamma, u muruvusiellu sarebbe passata a prenderlo sul tardi, per ficcarlo di filato a letto, dopo un’estenuante toilette d’un paio d’ore e tre quarti e l’abbondante incipriata di talco neutro roberts. …E nà e nà e nà/ su quatrariellu ’unn’eri i cca,/ ca gheri i curiglianu/ nammuratu i visignanu,/ ca gheri i l’arivanisi/ nammuratu i ssu pajsu./ E nà e nà e nà / cum’a tia biell’un ci nna,/ né ccà né fora regnu/ manchi a napuli ci nni stà.
Il gatto soriano tavor se ne stava acciambellato su una sedia spagliata da vero pascià, fiero d’aver delimitato il territorio sì da suggerire la sua presenza senza difficoltà. I peli color cenere ad attaccartisi dappertutto. La carne in scatola gourmet nel freezer whirlpool, sapientemente no frost, malinconicamente vuoto, a non lasciar dubbi su chi fosse il vero padrone di casa.


Il bisnonno, ritratto sputato dell’ingegnere, che ai suoi tempi ne aveva prese sbronze e perse battaglie, con il catetere a sbucare sfrontato dalla lampo, se ne stava ntataratu sulla sdraio della vecchiaia, fregandosene dei rendez vous con elezioni, fin du siècle e zeri del calendario. Tutti sofismi e corbellerie a rinvigorire lo spirito, sciupare il senno ed infiammare il mucchio d’ossa, ciccia, budella e nervi che ognuno si trascina appresso, con magnanima fierezza arteriosclerotica per il tempo sufficiente a scordarsi della propria esistenza a termine. L’odore stantio di gattamorta, di chiuso, che la sottile pelle vizza emanava, inasprita da una paraplegia messa in croce, a disgustarlo. En passant, rattristandosi ed immalinconendosi, gli risultava quasi naturale interrogarsi sulle ragioni dell’esistenza: …gisù cri’, chi n’ha fatti nasciri a fari? …Un imbroglio la vita. Una codificata successione più o meno ordinata di reazioni enzimatiche, stati d’animo e pruriti del buco culo: puro, inutile dispendio energetico, …na mannara! Un minuto prima mmurriculusu e cu ru muorivu a ru nasu, un istante dopo giulivo fringuello a smaniare dietro le gonnelle, poi figli, seccature, capelli bianchi, bruciori di stomaco, acciacchi, ed un bel mattino a sorprenderti nell’indovinare davanti allo specchio l’impeccabile espressione d’una faccia invecchiata, spiccicata a quella del tuo paparino, con l’intricato groviglio di capillari sotto pelle a caricarla d’un vigore di salute fallace. Disinteressato, il vecchio regalava al mondo la sua immobilità di malridotto invalido. Il cervello gli lavorava ad un ritmo incessante, sebbene la bocca non riuscisse ad articolare che singhiozzi, sbadigli e cavernosi colpi di tosse. Negli occhi una vivida luce cerebrale a suggerire: v’a faciti a fricata! …Quannu ghè tiempu sua, v’a faciti a fricata!


Ambizioso a sufficienza, diffidente al punto giusto, l’ingegnere si riteneva un perfezionista, un uomo che alla non tenera età di sessant’anni non aveva mai abdicato alle proprie responsabilità, dandosi da fare, intascando tutto ciò che c’era da intascare. Una tensione incontrollabile dentro, un’energia interiore indirizzata al raggiungimento del risultato a tutti i costi, a suscitare l’altrui ammirazione, a rimpinzarsi pancia e portafoglio. Malgrado questa consapevolezza, eternamente insoddisfatto, alla continua ricerca di nuove gratificazioni e conferme. Tutti pronti a soffiargli un’ideuzza singolare, la precedenza, la simpatia, il buon cuore d’un benefattore, di qualche chaperon, quattro soldi in più. In continuazione a reprimere un’innata aggressività, a soffocare e contenere l’assurdo ed impari conflitto con il mondo intero. Ogni nuovo giorno una nuova scommessa: …ghè fattu juornu, sia lluratu ddiu!\ Cu gisù cristu mi vuogliu arurari,\ ca gisù cristu è patrunu divinu,\ e di si guaji m’ha di librari!

Il tiggì riferiva d’una guerra troppo lontana per le premure e le attenzioni d’un omuncolo che s’arrabattava in un’esistenza inaggettivabile ad una distanza calibrata di più o meno 90.525 piedi da cosenza. La babbea idea fissa del piede quale arnese di misura pronto all’uso, fosse stata pure la singolare unità di lunghezza inglese pari a 30,48 cm, pervicacemente a frullargli in testa. L’ingegnere strabuzzava gli occhi sullo schermo ed afferrando il pollo ben abbrustolito, …perché il pollo si sa che va mangiato con le mani, morso a morso strappava quella carne gommosa e indorata che traboccava dalla bocca troppo piena. …Vukovar, srebenica, pale, sarajevo, mostar, pristina e tutta la feccia sul mappamondo, e chi se ne sbatteva!? Illusioni senza culo non necessitava coltivarne, guerra o non guerra il vivere avanti a filare, sia pure da qualche altra parte, meglio. La buona coscienza della guerra giusta, lo scampanellìo unanime dell’ingerenza umanitaria, la solidarietà delle operazioni di polizia internazionali, i caritatevoli bombardamenti n.a.t.o., a restargli indifferenti, a suggerirgli un niente. Il gusto esagerato di quei poveri cristi, cocciutamente attaccati alla spina della vita, bombardati dal cielo come inermi formiche, a non impietosirlo. Il bicchiere di vino, raso fino all’orlo, a mostrare intatte tutte le qualità di un bel colore rosso. La mano destra nell’afferrarlo a scuoterlo, a versarne qualche goccia sulla tovaglia già da lavare: …a ra saluta! Il crescente piacere per il vino preferiva non spiegarselo con il proverbio scurrile che gli amici fetenti, per via dei suoi sessant’anni, gli rammentavano: l’omu quannu pijari a sissantina, lassari u cunnu e pijari u vinu! …Ebbene? E con ciò? Non si diceva pure in vino veritas, ma lui la verità mai se la sarebbe lasciata sfuggire, se non sotto insistente ed ostinata tortura. Certo, con l’età svariati pensieri s’affievolivano, talune sensazioni s’attutivano, ma bastava una qualsiasi genoveffa che chiru ciròggino ca si crirìa stutatu, a ru vulu, s’appicciavari.

L’ingegnere era capace persino di stupirsi di come delle minuscole, fastidiose, stupide creature di dio, rivelassero tutta la loro crudeltà. Ancora un moccioso, da asparago quattr’occhi qual era, pancia a terra, rinfrescato dall’uligine, imbambolato fissava i formicai come dei tesori. Pignole, in fila indiana, di formiche a migliaia, ma mai che riuscisse a capire dove diavolo se n’andasse a finire quella processione. …Stupide formiche rosse rizzaculo! «Eh tuni, tuni! Ni vu’ faloppa tuni!» Non ammetteva scuse la mammina rompiballe, …ché era uno scansafatiche, …ché non aveva voglia di far niente. «Sempi a fujiri, timpesta! A sbrigliunijari tuttu u santu juornu, a ru castiellu.» La pancia arrossata, ben presto a stancarsi. Il terriccio nell’ombelico da tirarlo fuori con le dita. Con un vigore riacchiappato al volo, a trottare dietro l’apparizione d’una lucertola da bloccare nella sua inutile corsa. La coda recisa, una vera soddisfazione starla ad osservare la lucertolina! Le formiche ingorde a farne banchetto. Un pasto piuttosto succulento per le fameliche creature di dio. Ben presto, annoiato, a sbuffare e sputare e a pisciarci sopra, fino a farle affogare nel suo piscio, le fottute formichine!

Il tovagliolo spiegazzato a pulire la bocca. La macelleria slava avanzava a pieno ritmo, in presa diretta o registrata: nessuna discrepanza di sorta. Spari ed esplosioni in lampi di magnesio, sotto cieli di fosforo e cobalto, casti carnefici e martiri crudeli, sangue e macerie, feriti in carne ed ossa e morti. Un film truculento in un orario sbagliato. …Gisù cri’!? Viri tu, si su’ cose ca si puotini viriri a chist’ura! Sempi quannu gunu sta mangianni. Ci doveva pur esser del pudore, un minimo di morale, una pietosa predisposizione a frenare immagini così angoscianti e vomitevoli alla sacra ora del desinare. …Ché una trascurabile cernita, una sforbiciata più che altro, ci dovesse pur essere, da uomo di mondo corazzato qual era, l’ingegnere ne era più che persuaso. …Ché i giornalisti tagliano e rattoppano, prendendosi certo la briga e qualche precauzione, con la mano morbida ed il cuore tenero, cercando d’indorarla la pillola, scodellando notizie digeribili alla perfezione, favori auditel a parte, naturalmente.


A letto tossiva, scatarrava, sbadigliava, scorreggiava, come una bestia sconsolata e artritica allungava le estremità, si girava e rigirava, si scoraggiava. Solo genoveffa esisteva. Le sue grazie gli s’erano impresse in zucca e non si cancellavano né ppi diu né ppi ri santi! A tirisinella, invece, piaceva starsene davanti alla tivù fino a tardi, mezzanotte e più, tra un colpo di sonno ed uno di veglia a sciropparsi quello che passava il convento, scongelandosi pigramente su un vecchio divano. Le rare volte in cui happyfeet non si sottraeva ai doveri coniugali, tirisinella irrimediabilmente si trasformava: non era più la vecchia strega che aveva sposato una fredda domenica di gennaio di trentacinque anni prima. Ogni volta che incappava in via col vento pure tirisinella s’infervorava tutta. Attratta com’era da clark gable, come non gli era mai capitato con nessun altro in vita sua, da quel dannato divano con le molle già andate, non si alzava per nessuna ragione al mondo! E chi la spostava? Fremiti, lacrime, il cuore all’impazzata. Lusingata e compiaciuta, era in quelle occasioni che più volentieri si lasciava andare. Almeno una volta l’anno. Di regola in piena estate. Tra le lenzuola, che lei stessa aveva ricamato a punto croce, i suoi sogni si coloravano dei colori della georgia di victor fleming. Lui l’abbracciava, la palpeggiava, se la scopava e lei con tutte le sue forze si ricriavari. A stringerselo, a baciarselo, smaniando e delirando. Una femmina ancora desiderabile, meglio di vivian leigh in verità. Chiamami rossella, sussurrava. …Non ho amato che te, dalla prima volta che t’ho visto alle dodici querce, reth. …Sono io, rossella, non mi riconosci? Happyfeet, però, nemmeno per sogno ad accorgersi di tutta quella partecipazione fuori dell’ordinario!


Ppi r’appracari u cori e l’anima ogni cosa poteva servire, purché tirisinella non aprisse bocca, ma putìa vàttiri a capa i mura mura, ca a tòccara si doveva far sentire ppi ti fari scjcattari. Lasciando stridere la sedia sotto il tavolo, continuava ad affettare quantità industriali di pane, nemmeno avesse a che fare con un esercito, abbandonandosi di tanto in tanto ad un’invocazione con un animo di sincera commiserazione: …madonna santa che sconcezza! Quella semplice frase a rompere l’incantesimo. Ogni volta nu rucculo e na zimeca. Una parola dietro l’altra a ti fari a capa gacqua. Ogni volta una rogna ed il suo rincoglionimento. La cena a freddarsi e ad andarti per traverso. Ci teneva tirisinella ad aggiornare u maritu ciavuccu sulle cattive nuove del giorno, in un ordine cronologicamente nebuloso beninteso, …ché pure la memoria le faceva oltretutto difetto, senza trascurare il fatto che del seno e du culu tunnu i ra giuvinturna non ne rimaneva più traccia. Con foga immutata sbraitava e si sgolava, facendoti ammutolire. In men che non te l’aspettassi tuonava ed imprecava scagliando l’ennesima lungagnata: …chè la bolletta dell’enel, dell’acqua, del gas, del telefono si dovevano pur pagare, …chè i soldi mai bastavano, …chè a capizzi e ra pirizzi nissunu ripuosu truvavari, …chè la lavatrice si doveva aggiustare perché lenzuola e panni si dovevano pur lavare, …chè mbeci i r’aiutu li ravani spuntillu, …ca mariti e figli cumu diu ti mannari ti pigli, …chè da qualche parte il vecchio andava ricoverato e chissà che altro, che a starle dietro ti ci perdevi d’incanto. A questa tiritera aggiungeva ogni nuova o vecchia riprovazione e considerazione in relazione all’occasione, al calendario, ai gradi celsius dell’ambiente circostante, a prescindere dalle condizioni psico-fisiche-morali e dallo stato di salute complessivo in cui versava, a seconda dei ghiribizzi, delle insinuazioni e ripicche, che in quell’istante, giorno, mese e stagione dell’anno le soggiungevano all’unisono alla mente. Tirisinella s’indignava con tutte le forze in corpo. Di quella guerra oltre l’adriatico ne aveva fin sopra i capelli, …ché a mantenere in vita dei disgraziati morti di fame con i suoi soldi, un’altra indecenza, una porcheria bell’e buona, …chè godersi in santa pace il tiggì diventava un’impresa, come se non bastassero disgrazie ed inghippi d’ognuno in casa propria, senza preoccuparsi pure delle guerre e degli slavi! Con voce oltremodo arrochita a domandarsi che colpa ne avesse delle sciagure altrui, …ché la vita le aveva dato già il ben servito con il marito bacucco che si ritrovava, …sciorta sua, a ru siettu i ru mari! …Ah, se solo le avessero fatto fare di testa sua, a tirisinella! Sarebbe stata tutta un’altra cosa, da giurarci. Soprappensiero, quindi sbottava: va a finire che mi ci vo’ n’atra bustina!


Fra un campionario di sciroppi, mezze pomate, blister di compresse — il nervoso a spazientire e le pasticche a spezzarsi sparpagliandosi a terra, — ed altri rimedi scaduti e non, l’aulin a far bella mostra di sé. In un disordine che s’accresceva col mettere e levare, ogni cosa soffocando accanto all’altra, come un caro ricordo ingombrante, sul ripiano d’un antico mobile traballante, non certo stile liberty.

Mentre i suoi piedi incominciavano un tip tap fuori tempo, sazio della lagna che si sorbiva come il caffè a fine pasto, l’ingegnere batteva un pugno sul tavolo. Sollevandosi sui calcagni a voler calciar pedate in aria, all’arrivo del laconico e distinto messaggio dalla meraviglia di cervello che si ritrovava, quei piedi benedetti a rabbonirsi altrettanto di scatto: …aria, si cambia aria! Fuori finalmente.


Importuno il telefono a squillare. Tirisinella ad arrancare frettolosa. Chi poteva essere se non la sorella i cuscinali o chir’atra quacquarera che da quando abitava a cosenza pensava di starsene nentimenu c’a milanu!


Il biberon chicco a rotolare giù. L’angioletto mocciosetto a strillare. La nonna, titubante per un istante i adduvi si spartiri, ad accorrere solerte, …chè gli strilli le aggravavano oltremodo il mal di testa. Rivolgendosi quindi all’imperturbabile marito, tirisinella ad imprecare: «ma guardalo si si moviri u curnutu


Raggiunta l’uscita, happyfeet a bofonchiare: «e spegni la televisione, dannazione!» …Ché, con tutte quelle tragedie — arrassi i tutti, ca l’aggrizzavani i carni! —, ci si rovinava pure la digestione ed il poco di salute che certo non abbondava.


«…E nun sbattiri a porta, curnutu


L’intempestiva preghiera della gentile consorte ad affliggergli i timpani stimolando una secrezione biliare non indifferente. Dalle visceri in subbuglio un portentoso rutto a soffocarglisi nel gargarozzo. Camminando si frugava nelle tasche. La cattiva creanza della mogliettina ed i cambi di stagione ad irritargli lo stomaco con staffilate di malumore: …na zivula i mugliera po’ vutari puri nu castiellu i maritu! Non fossero bastate sermoni e geremiadi s’era pure scordato il maalox plus, s’era! La riacutizzazione di quell’ulcera, a cui non s’era ancora abituato del tutto, a divenergli insopportabile, non meno delle sollecite ed azzardate soluzioni della mogliettina solerte, che gli propinava il solito digestivo antonetto all’aroma di menta. Facilmente irritabile. Qualche pasto saltato di proposito. Il vano proposito continuamente disatteso di smettere di fumare: ancora mezza sigaretta e poi basta, da domani smetto, mi tagliassini i mani! Perfetta identikit di soggetto ulceroso si sarebbe detto. A volte però, con il maalox plus in tasca, riusciva perfino a sedarla quella sua benedetta ed insopprimibile ansia.


Ad accrescere l’agitazione, la constatazione di dover passare in farmacia. Il farmacista non si sarebbe certo lasciato sfuggire l’occasione per elemosinare un voto per il figlio in lista nello stendardo biancazzurro! «Dottore, mi dia qualcosa. La prego. Lo stomaco, sa…» Così avrebbe detto, guardandosi attorno con aria di circostanza, quasi avesse bisogno di tutt’altro. Bianchiccio, quasi giallognolo come un latticino scaduto, da dietro il bancone, nel suo camice che lo stritolava, il farmacista si prodigava con una gentilezza melliflua, appiccicaticcia. «Del ranidil! Dello zantac. Del gastridin. Del famodil. Del mepral in compresse. Una scatola di raniben. Il ranibloc. …Tutto quanto.» Nella santa cucurbita che si ritrovava, il convincimento che il candidato fosse il degno figlio di suo padre, …nu ciuotu fricatu! «Una preferenza? Per carità, la mia è sicura. …Proprio il maalox le manca?» Non riusciva a spiegarsi tutto quel riguardo e quella condiscendenza: …si conoscevano da una vita, crist’iddio! Al da farsi ci avrebbe pensato al momento opportuno. Si sarebbe solo lasciato sfuggire: «però non dica niente. …Sa com’è!»



ROSARIO LOMBARDO

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